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La razza come criterio d’identità: alla prova dei fatti

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Quando si evoca l’identità, si rimanda a un procedimento che permette a un individuo di qualificarsi come unico in base a precise caratteristiche. Non a caso la carta d’identità ricorre, a questo scopo  alla descrizione di un determinato numero di parametri utili al confronto: la fotografia, la statura, il colore degli occhi. Se tutti corrispondono, la persona in questione è proprio quella, è cioè “identica” a quell’insieme di dati.

Se curiosiamo su un dizionario ci accorgiamo, in effetti, che la parola “identità” viene dal latino “idem”, che significa “stesso”, “medesimo”, termini che fondano quindi il proprio significato sull’esistenza di un termine di paragone. Possiamo assumere quindi, con una certa libertà, che cose o persone possano qualificare la propria identità grazie a un contesto: quella persona sarà cioè  identica solo a se stessa in forza di una serie di differenze rispetto a un gruppo di riferimento.

Quale può essere il gruppo di riferimento da cui partire? Se rimaniamo in termini biologici si potrebbe dire per esempio “bipedi”, oppure “mammiferi” o ancora “uomini”, oppure “neri” o “bianchi”. C’è qualcuno che si scandalizza? Non usiamo questo criterio tutti i giorni?
La razza rappresenta da sempre un primo criterio per stabilire appartenenza e  distinzione, quindi identificazione.

E del resto la razza appare come qualcosa di difficilmente contestabile: che esistano bianchi e neri è palese. E  i cinesi magari non saranno gialli come si dice ma che abbiano gli occhi tagliati diversamente dagli occidentali è innegabile, quindi è facile identificarli in base a questo connotato “razziale”.

Appare quindi “etico”, cioè “secondo costume”, procedere a stabilire la propria identità anche in base a un criterio che preveda l’appartenenza a una razza. Ma è davvero corretto procedere in questo modo? La scienza oggi ci dimostra che, anche in questo caso, le nostre certezze, in realtà,  sono  meno solide di quanto non sembri a prima vista.

A metterle in discussione sono una serie di evidenze ben riassunte, per esempio, da Guido Barbujani nel suo libro «L’ invenzione delle razze » (Bompiani).
La prima provocazione che ci viene posta dal testo è infatti: se esistono le razze quante sono?

E qui arriva subito il primo problema: le diverse classificazioni che sono state proposte ne ipotizzano da 2 fino a 200.
Bene, allora significa che evidentemente può essere non facile individuare un criterio oggettivo. Eppure, che i neri siano neri è evidente per tutti…

Sì, ma quanto bisogna essere neri per essere neri? E i meticci? Sono una razza a parte? E i  figli di meticci con neri, oppure con svedesi con gli occhi azzurri? Ognuno creerà una razza a sé? Via di questo passo le razze diventano 2 milioni, non 200 e allora addio contesto di identificazione.

Se il colore della pelle non ci viene in aiuto non è però detto che sia necessario arrendersi subito. Forse basta cercare qualcosa d’altro, di più oggettivo, di più facilmente misurabile, come per esempio la presenza di qualche proteina o enzima nell’organismo: ci sarà la razza che ce l’ha e quella che non ce l’ha, niente vie di mezzo. Una caratteristica che si presta molto bene allo scopo è la capacità di utilizzare anche nell’età adulta il lattosio contenuto nel latte, capacità che alcuni perdono quando, con la crescita, si inattiva un enzima che si chiama lattasi.

L’inattivazione è determinata geneticamente, quindi perfetta per una distinzione in gruppi di popolazione ben definiti, cioè di razze. Eppure, fa notare Barbujani,  non ci sono popolazioni o razze in cui tutti digeriscono il latte e altre in cui non lo digerisce nessuno. I diversi gruppi umani differiscono al loro interno invece per la percentuale di persone in cui la lattasi si inattiva: sono una minoranza in Europa e in alcune aree dell’ Africa, sono la maggioranza in estremo Oriente e in altre zone dell’ Africa, con varie sfumature intermedie nelle località intermedie.

Insomma, se volessimo prendere la lattasi come criterio distintivo per stabilire una differenza tra razze, ci accorgeremmo che non c’ è discontinuità tra i gruppi umani per questo carattere, ma un continuum. Insomma, proprio come per la pelle. Siamo daccapo. Si potrebbe andare avanti con gli esempi, il problema, però, si ripresenterebbe più o meno sempre allo stesso modo: non ci sono linee scientificamente riconoscibili a separare popolazioni nettamente diverse le une dalle altre.

Non siamo convinti? Siamo sempre sicuri che i neri siano neri e i bianchi siano bianchi? Allora prendiamo gli aborigeni australiani e gli africani. Sono due popoli neri. Se esiste una razza nera dovremmo includerli entrambi. Ma se andiamo a valutare molte altre caratteristiche, come ha fatto il genetista Luca Cavalli-Sforza, scopriamo che sono probabilmente i due gruppi più diversi della terra dal punto di vista genetico: il colore della pelle varia in maniera discordante con tante altre caratteristiche (fra cui la funzionalità della lattasi). E se ripetiamo l’esperimento partendo da qualsiasi caratteristica biologica, il gioco finisce sempre allo stesso modo: un rompicapo in cui tutti si somigliano per qualche verso a tutti e per qualche altro verso si differenziano.

Un puzzle che farebbe impazzire chiunque. “Se si ripercorrono in chiave storico-critica le tappe del dibattito sulle basi biologiche della diversità umana, dalla nostra origine africana alla colonizzazione dei cinque continenti” ha dichiarato Barbujani in un’intervista al Corriere della Sera, “si vede come le conoscenze accumulate smentiscano in modo definitivo l’idea ottocentesca che l’umanità sia frammentata in gruppi biologicamente distinti, che in altre specie si chiamano razze”.

Tornando ora alle ragioni iniziali di questa riflessione: possiamo ancora pensare che è etico utilizzare il criterio di razza per contestualizzare l’identità? Le evidenze scientifiche ci dicono di no. A noi decidere se avere l’umiltà (e quel po’ di coraggio che serve) di cambiare il nostro pre-giudizio oppure no.

E se può ancora sembrare incredibile pensare che le razze non esistono proviamo a riflettere sul fatto che anche la terra sembra piatta,  eppure la scienza ha dimostrato che è rotonda. Se qualcuno ci dicesse che non è così perché “è chiaro che è piatta” (quanto che “i neri sono neri e i bianchi sono bianchi”)  nutriremmo probabilmente più di una perplessità sul suo punto di vista.

A cura della Fondazione FIVE onlus


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