In occasione del quarantesimo anniversario della scomparsa di Pasolini, David Grieco, un vecchio amico del grande intellettuale scomparso nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, ha portato nelle sale cinematografiche “La Macchinazione”: un film che ricostruisce gli ultimi cento giorni del poeta di Casarsa e ne mette in evidenza i dubbi, le ansie, i tormenti e quel profondo senso di sconforto, quasi di resa, al cospetto del dominio volgare e violento del potere che si riverbera in “Salò o le 120 giornate”, senz’altro il film più amaro e visionario dei tanti che Pasolini ha realizzato.
Citando Jean Cocteau, nel finale dell’opera di Grieco, un magistrale Massimo Ranieri (la cui somiglianza con Pasolini è impressionante) afferma che non c’è cosa più intollerabile che essere tollerati, capiti e di fatto accettati da un sistema di potere che egli considera una piovra, i cui tentacoli si protendono ovunque, le cui spire sono in grado di soffocare ogni speranza, ogni ardore, ogni velleità di riscatto sociale. Non a caso, la scena onirica cui Grieco affida la visione proiettata in avanti, eppure così veritiera e prontamente affermatasi nei decenni successivi, è quella di un Pasolini che immagina una serie di uomini che passeggiano avidi e pieni di se stessi mentre sullo sfondo scorrono gli indici di borsa, emblemi di una società corrotta e sempre più in preda al demone consumista, condannata a una rapidità disumana e disumanizzante, incapace di concepire e di accettare il concetto stesso di ingenuità, di pulizia, di purezza.
Era soprattutto questo che affliggeva Pasolini negli ultimi mesi della sua vita: il fatto che persino le sue amate periferie, le sue borgate, i luoghi simbolo di quei “ragazzi di vita” cui aveva dedicato buona parte della sua osservazione e della sua arte, persino quel mondo, un tempo incontaminato e lontano anni luce dalla falsa modernità di un progresso massificante, stesse per asservirsi alle mode e ai costumi della “società del benessere”. Pasolini, come si evince da quell’intervista, dai suoi articoli provocatori sul “Corriere della Sera” e dai suoi ultimi film, si sentiva uno sconfitto cronico, un uomo per il quale non c’era più posto da nessuna parte, in quanto ostile a tutte le consorterie, contrario a qualunque forma di consociativismo, convinto, pur essendo comunista, che anche il PCI non fosse più quel “Paese pulito in un Paese sporco” come egli stesso aveva teorizzato.
Pasolini sapeva ma non aveva le prove. E nemmeno indizi. Pasolini gridava ma, pur essendo uno degli intellettuali più famosi al mondo, si sentiva inascoltato, cosa che in effetti era. Pasolini soffriva, soffriva profondamente, dinanzi a una società che si sforzava di raccontare ma che finiva sempre col condannare senza appello, in quanto era arrivato a detestarne ogni singolo aspetto, ogni caratteristica, ogni cedimento ai dettami di quella piccola borghesia intimamente fascista che andava ben al di là degli esigui consensi del MSI.
Pasolini era ossessionato, sì, ma non tanto dalla figura di Cefis, il capo della Montedison cui pure PPP attribuiva una serie innumerevole di malefatte, a cominciare dalla regia occulta delle cosiddette “stragi di Stato” e dalla fondazione della loggia massonica Propaganda 2, quanto, più che mai, dal contesto sociale degradato che aveva consentito a un personaggio del genere di affermarsi come dominus della vita pubblica italiana.
Pasolini era disgustato, in pratica, dalla scissione a suo parere irreversibile fra etica e politica, dal divorzio del buon gusto dalla società italiana, dalla scomparsa delle lucciole, ossia di quello stile di vita pre-industriale, pre-borghese, pre-ricco e pre-consumista, quell’Italia umile e agricola ma vera, composta da gente semplice, non ancora abbagliata da un falso mito di progresso che già ai tempi di Pasolini ne aveva devastato l’anima e il paesaggio.
Ce l’aveva con la scuola, PPP: fucina, a suo dire, di nozionismo borghese e, per l’appunto, di indottrinamento consumista, luogo di educazione ad un nuovo tipo di schiavitù e di assoggettamento dell’uomo; era talmente schifato dalla strada che aveva imboccato la società dei consumi che era arrivato a consigliare ai figli dei proletari di fermarsi alla quinta elementare per non acquisire quella che considerava una cultura omologante, priva di senso critico, ammannita con l’esplicito scopo di abituarli a ragionare secondo l’ideologia dominante, dunque ad esser proni alla volontà dei potenti, con l’aggiunta di una patina intollerabile di ipocrisia che li induceva a credere di essere finalmente liberi.
Questa è la denuncia alla base di “Salò”: un film sul fascismo senza fine che avviluppa il nostro Paese; un film sulla violenza psicologica, prima ancora che fisica, che esso esercita tuttora; un film provocatorio, brutale, sconvolgente, destinato a fare scandalo e a destare sgomento ma, proprio per questo, in grado di indurre a riflettere sull’indecenza di un conformismo che, dietro la favola dell’ascensore sociale, aveva sempre di più cristallizzato i ruoli.
E Cefis, secondo Pasolini, altro non era che l’apice di un modello di sviluppo, il simbolo del paradigma egemone, l’oppressore pronto a tutto pur di conservare il proprio potere e di estendere la propria sfera di dominio e di interessi.
Politica, affari, massoneria, servizi segreti deviati, giustizia ingiusta e religione alle dipendenze del potere, essa stessa potere, anziché annunciatrice dell’autentico messaggio di Dio e del Vangelo: questa era la denuncia scioccante di un Pasolini che si sentiva circondato da un’eterna Salò, non più città simbolo del fascismo ormai prossimo alla sconfitta ma labirinto, prigione, profezia, destino di un Paese pavido e senza futuro.
Era questa la dirompente rabbia che pervadeva Pasolini mentre scriveva avidamente “Petrolio”, il suo unico libro incompiuto che pure dice tutto, probabilmente la causa della sua morte, il motivo per cui il suo profondo scandagliare nelle viscere del male aveva smesso di dare solo fastidio ai potenti e iniziato a far loro seriamente paura.
Notizie false, depistaggi, il tentativo di screditare uno dei più grandi intellettuali del Novecento e infine la verità che resiste al tempo e riaffiora, sia pur parzialmente, a quarant’anni di distanza, squarciando il velo delle omissioni, dei compromessi e degli eterni misteri di una Nazione a sovranità limitata, le cui sorti sono sempre state decise altrove.
“La Macchinazione” è forse il più bel regalo che Grieco potesse fare a Pasolini e a tutti noi, rendendo giustizia a una persona e restituendoci il desiderio di immaginare e di provare a costruire, insieme, un’altra idea d’Italia.