L’articolo 72 della Costituzione dispone, in sintesi, che ogni progetto di legge sia prima istruito dalla commissione parlamentare competente e quindi approvato in sede plenaria dall’Assemblea di ognuna delle due camere. Con un vincolo che almeno in questa seconda sede non risulta rinunciabile: l’esame e la votazione dei singoli articoli, in cui ogni testo deve essere suddiviso fin dalla sua proposizione, previa votazione dei rispettivi emendamenti. Questo – della presentazione di emendamenti – è un diritto, che i «riti irrituali» tendono, tutti o quasi, a comprimere se non ad eliminare: attraverso strumenti vari e differenti, oltreché spesso dotati di nomi fantasiosi e suggestivi. Come «tagliola» o addirittura – senza riguardi o ipocrisie – «ghigliottina»; o, fantasiosamente, «canguro», animale dall’esemplare abilità nel saltare gli ostacoli (nel caso, gli emendamenti). O, con realistica crudezza, «maxiemendamento»: immane cumulo sotto un unico cappello di un numero imprecisabile ed illimitabile di commi, molti dei quali delle dimensioni autonome di articoli.
A questi strumenti, che hanno in comune un palese intento predatorio di un duplice diritto – di proporre modifiche e di votarle – si accompagna di fatto la posizione della questione di fiducia: istituto, almeno questo, previsto in Costituzione, che inserito nell’iter legislativo non consente di conoscere la reale volontà dell’assemblea.
Il vezzo di procedere con maxiemendamenti senza limiti ha prodotto la sostanziale impossibilità di interpretare una norma da parte di professionisti o cittadini normodotati, sempre comunque tenuti a rispondere delle conseguenze della sua eventuale, spesso inevitabile, inosservanza. Tra i « riti irrituali» e la riforma del Parlamento – cardine dell’intera riforma costituzionale – si colloca l’obiettivo proclamato di semplificare e abbreviare i procedimenti parlamentari, per rendere possibile la fisiologica attuazione degli impegni di governo: e quello, conseguente ed implicito, di tornare al rispetto della formula costituzionale di cui all’articolo 72.
Attuazione fisiologica che consiste nel ritorno ad una dialettica parlamentare basata sul principio di maggioranza, per cui chi è maggioranza ha diritto di vedere approvate le proprie proposte, e le minoranze quello di denunciare efficacemente all’opinione pubblica la propria contrarietà. Tra gli obiettivi anche quello di rimuovere deplorevoli pratiche in voga quali i traffici di parlamentari: privati spesso, deputati e senatori, di identità a causa di leggi elettorali che li rendono non collegabili al “popolo sovrano” di cui sono giuridici rappresentanti.
In breve, l’eventuale entrata in vigore della riforma della struttura del parlamento dopo il referendum d’autunno dovrà accompagnarsi, da parte delle camere e d’intesa con l’esecutivo, alla ripulitura degli archivi della presidenza e degli uffici delle camere dalla sovrastruttura costituita da decenni di prassi e precedenti creati alla bisogna, primi tra tutti quelli che hanno dato corpo proprio ai deplorati «riti irrituali». Precedenti dapprima introdotti (nella prima repubblica del muro di Berlino e della conventio ad excludendum) per dare qualche respiro ad esecutivi impotenti davanti alla dominante consociazione parlamentare; quindi, nella seconda, per la sostanziale assimilazione delle camere da parte di esecutivi poco rispettosi, taluni e talora, del principio di distinzione tra poteri costituzionali.
Con questa accortezza, il nuovo parlamento, sostanzialmente la nuova Camera dei deputati, dovrà costruire quando necessario i propri precedenti, le proprie prassi, con la trasparenza spesso mancata fin qui nella formazione e nella gestione degli stessi.
Tutto ciò fermo restando il giudizio che ciascuno dia sulla riforma, e che il referendum confermativo consentirà democraticamente di esprimere.