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Ilaria Alpi e Miran Hrovatin uccisi 22 anni anni fa. Attendiamo ancora verità e giustizia

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“E’ difficile sapere che cosa sia la verità. Ma a volte è molto facile riconoscere la falsità” (Albert Einstein)  

Il 5 aprile p.v. si apre a Perugia la revisione del processo nei confronti di Hashi Omar Assan condannato definitivamente a 26 anni di carcere (26 giugno 2002) per concorso nell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 a Mogadiscio.

Ali Rage Hamed detto Jelle è il testimone d’accusa chiave nei confronti di Hashi che appare da subito un vero e proprio capro espiatorio. La sentenza del processo di primo grado che assolve Hashi lo confermerà a chiare lettere scrivendo della “costruzione di un capro espiatorio” stante che “il caso Alpi pesava come un macigno nei rapporti tra Italia e Somalia” e stante che “alcune piste potrebbero portare a ritenere che la Alpi sia stata uccisa, a causa di quello che aveva scoperto…”

L’anno scorso, di questo periodo, la trasmissione “Chi l’ha visto?” manda in onda un’intervista a un somalo rifugiato in Gran Bretagna che dice di essere Jelle: sostiene di aver dichiarato il falso (accusando Hashi) su richiesta di un’autorità italiana: per soldi. Già nel 2004 e successivamente nel 2010 Jelle aveva fatto dichiarazioni simili. Per queste dichiarazioni (di cui esistono le registrazioni audio) ha subìto un processo per calunnia che si è concluso il 9 ottobre 2012 con una assoluzione in contumacia avendo la corte di fatto accertato che “…la testimonianza di Jelle contro Hashi potrebbe essere falsa…”  ma non avendo certezza delle identità.

Della sua deposizione (10 e 11 ottobre1997) alla questura di Roma prima e poi davanti al pm resta il testo degli interrogatori e la foto segnaletica del suo documento. Jelle non ha testimoniato al processo e dunque non ha riconosciuto Hashi. Era già “irreperibile” quando Hashi giunge in Italia la mattina del 12 gennaio 1998 (fa parte del gruppo di cittadini somali fatti venire dalla commissione presieduta da Ettore Gallo per testimoniare di presunte violenze subite dai militari italiani). Sarà subito arrestato con l’accusa di concorso in omicidio. Il confronto video con la foto segnaletica a questo punto è inequivocabile: il Jelle di “Chi l’ha visto” è proprio l’accusatore di Hashi.

E’ notizia di questi giorni che il pm della procura di Roma che si sta occupando dell’inchiesta si recherà in Inghilterra per interrogare Jelle.

Se Jelle ha mentito accusando Hashi Omar Hassan ed è stato pagato per mentire, ci sono le condizioni perché il nuovo processo scagioni Hashi che ha già scontato una pena di quasi quindici anni. E si dovrà riaprire tutta l’inchiesta sul duplice assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Bisogna infatti sapere chi ha ucciso, chi ha ordinato il duplice assassinio: scoprire chi ha depistato, chi ha costruito carte false e chi nell’estate 1997 ha costruito il capro espiatorio Hashi Omar Assan (individuando chi lo ha fatto anche da dentro le istituzioni della Repubblica). E’ una condizione necessaria per avere verità e giustizia.

Le istituzioni di questa nostra Repubblica hanno accumulato un grande “debito” nei confronti di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, delle loro famiglie. Ma anche nei confronti di tutto il paese. Forse il tempo di riparare è iniziato. L’impegno e la determinazione delle istituzioni italiane perché si arrivi a giustizia e verità sull’assassinio tragico di Giulio Regeni, le dichiarazioni del presidente egiziano Al Sisi, il tempestivo viaggio in Egitto del procuratore capo di Roma segnalano che una fase nuova è avviata.

Una conferma: il sito dell’archivio della Camera dei Deputati intitolato a Ilaria Alpi e a Miran Hrovatin aperto in questi giorni alla consultazione on line con la de-secretazione di alcune centinaia di nuovi documenti (dopo i 17 di un anno fa), che potrà riservare nuove sorprese. Quel che è emerso fino a qui, infatti, conferma che si è trattato di un’esecuzione programmata e ben organizzata e che, già dai primi giorni dopo il 20 marzo 1994, era apparsa chiara la pista dei traffici di armi e di rifiuti, in contiguità con iniziative della cooperazione internazionale.

Ma che si è scelto di non scandagliare quella pista, di non cercare mandanti ed esecutori; anzi c’è stato chi ha cercato di occultare, depistare arrivando a mentire, fare carte false. Da subito si sostiene la “casualità” (tentativo di sequestro, rapina, fondamentalismo islamico, rappresaglia contro l’esercito italiano). E si nasconde tutto ciò che invece conferma l’esecuzione. La relazione di maggioranza della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran ne è un esempio.

In tutta questa storia assumono un particolare rilievo il ruolo e le informative dei servizi segreti (SISMI e SISDE) e della Digos di Roma e di Udine, in parte già note nel corso del primo processo contro Hashi Omar Assan. In alcune di queste informative si leggono nomi di possibili esecutori e mandanti e anche si riferisce di una riunione che si sarebbe tenuta a Mogadiscio il 15 di marzo 1994 presso la residenza di Ali Mahdi in cui si è deciso il duplice assassinio, il luogo, le modalità e la sua organizzazione.

Diverse testimonianze e documenti lo confermano. Il 15 marzo Giancarlo Marocchino, durante una cena a casa sua, informò i presenti (giornalisti, militari diplomatici…) di un possibile attentato in preparazione a giornalisti, invitandoli a lasciare Mogadiscio (cosa che hanno fatto). Il giorno successivo ci fu una riunione organizzata dall’intelligence che confermava l’allarme.
Ilaria nel frattempo era “bloccata” a Bosaso dove aveva subito minacce di morte ed era stata “trattenuta” per breve tempo da esponenti di clan locali.

Non era a conoscenza dell’allarme e quando arriva quella domenica a Mogadiscio la trappola è organizzata. A Mogadiscio nei giorni del duplice delitto ci sono ancora migliaia di soldati dell’ONU. Il generale Carmine Fiore comanda il contingente italiano. Il colonnello Luca Rayola Pescarini è responsabile del SISMI. Il colonnello Fulvio Vezzalini è a capo dell’intelligence dell’UNOSOM.

Mario Scialoja è ambasciatore italiano in Somalia. Anche un nucleo di carabinieri del Tuscania con compiti di indagine è lì. Nessuno di loro si reca sul luogo del duplice delitto, come documentato dai filmati dell’ABC e della televisione svizzera nell’immediatezza dell’agguato.

Sarà Giancarlo Marocchino, quel “chiacchierato” imprenditore italiano in Somalia dal 1984, ad arrivare sul posto o forse era già lì. Nessuno attiva un’indagine, sequestra le armi dell’autista di Ilaria e della scorta, interroga i testimoni.

Al rientro in Italia della salma, non viene disposta l’autopsia ma il 22 marzo 1994 al cimitero Flaminio, dopo aver eseguito sul corpo di Ilaria un esame medico esterno, il dottor Giulio Sacchetti, perito medico scrive: “…trattasi di ferita penetrante al capo da colpo d’arma da fuoco a proiettile unico esploso a contatto con il capo.”

Sono già spariti il certificato di morte redatto sulla nave Garibaldi, e il body anatomy report redatto dalla compagnia Brown Root di Huston, insieme a bloch notes di Ilaria e a videocassette registrate.

Durante il viaggio da Mogadiscio a Ciampino i bagagli vengono violati.

Vorrei raccontare sommessamente un episodio a proposito del comando militare.  Luciana Alpi, madre di Ilaria è stata querelata dal generale Carmine Fiore perché lo definì “bugiardo e inaffidabile”. Il 20 maggio 1994 Il generale Carmine Fiore, in una lettera scritta ai genitori di Ilaria, aveva scritto: ”…Gli stessi carabinieri hanno recuperato i corpi, li hanno portati al Porto Vecchio e da qui in elicottero sulla nave Garibaldi. Nel contempo insieme ad alcuni giornalisti italiani si sono recati all’hotel Sahafi per raccogliere tutto il materiale degli interessati…”

Si tratta di clamorose bugie che il generale continuerà a sostenere anche di fronte alla commissione d’inchiesta sulla cooperazione con i paesi in via di sviluppo e nonostante l’evidenza delle immagini televisive (nessuna autorità italiana si reca sul luogo dell’agguato e all’hotel Sahafi a fare i bagagli sono i giornalisti Gabriella Simoni e Giovanni Porzio ripresi da Vittorio Lenzi della televisione svizzera).

Luciana Alpi subirà due processi.

E le motivazioni della sentenza definitiva di assoluzione della Corte d’appello di Brescia (3 febbraio 1998) parlano chiaro: Le affermazioni del generale Fiore contenute nella lettera inviata ai genitori della Alpi sono risultate non corrispondenti alla verità… Nessuna di tali affermazioni corrisponde alla verità… La lettera non pecca di inesattezze ma travisa completamente i fatti nell’evidente fine di offrire un’immagine di efficienza dell’esercito italiano, nella specie immeritato…”

Nel corso di questi 22 anni si è formato attorno alla memoria di Ilaria un largo consenso e un gruppo sempre più numeroso di persone (ma anche di scuole, istituzioni, biblioteche associazioni…) che vogliono arrivare alla verità. Si è capito che in nome di Ilaria si combatte per raggiungere verità e giustizia oltre la tragica morte di due persone innocenti, per i diritti delle cittadine e dei cittadini del mondo intero.

I lavori scritti e audiovisivi di Ilaria, i racconti che di lei hanno fatto i suoi genitori, alcuni colleghi e amici ci hanno fatto scoprire molte cose di lei. Le cose forti, gli ideali, i valori. Ci hanno fatto entrare nel suo mondo, anche in una dimensione più personale custodita nel ricordo di chi l’ha conosciuta e amata.

Ilaria è un esempio forse anche perché in lei ognuno può cercare, trovare qualcosa di sé: l’interesse per gli altri mondi dentro e fuori il nostro mondo, l’indignazione per le ingiustizie e le atrocità che continuano ad accadere, l’amore per ciò che si fa, per la conoscenza, per la cultura. L’amore per tutto quello che avvicina le persone ad altre persone, vive o morte.

Ilaria ci lascia una “eredità” impegnativa in questa domenica di primavera 20 marzo 2016.


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