Di Antonella Sinopoli
Sembrano immagini che vengono dal passato. Immagini di sofferenze superate, sanate. E invece, sappiamo che sono le immagini con cui – anestetizzati o meno alla tragedia – dobbiamo fare i conti tutti i giorni. In quest’Europa che implode nella più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale. E, per quanto luoghi e persone protagoniste di questo dolore, possano sembrarci lontani – seppure alle porte di casa – la tragedia dal punto di vista morale ma anche per gli effetti che avrà (e sta già manifestando) è di proporzioni globali.
Idomeni (o Idomene), un piccolo paesino della Grecia al confine con la Macedonia, sta diventando un simbolo – come già Lampedusa o la “giungla” di Calais. Simbolo del’incapacità (o dell’egoismo) dell’Europa di affrontare una crisi che non accenna a finire. Dimenticando che i milioni di rifugiati che premono alle frontiere non sono rifugiati economici – magari una minima parte – ma scappano dalle guerre e le destabilizzazioni provocate anche dagli interventi e dalle politiche europee.
La gente preme ai posti di blocco, sui fili spinati, contro i muri e le barricate, costretti a subire le angherie di poliziotti che eseguono ordini e di governanti che quegli ordini li danno. Costretti alla “ritirata” dai gas lacrimogeni. Come si fa con i delinquenti. Ma sono famiglie. Sono bambini.
Per sapere cosa accade laggiù – senza edulcorazioni – possiamo ascoltare le testimonianze di quelle Organizzazioni che cercano di portare assistenza, conforto e umanità a questi uomini piegati dalle sofferenze e piagati dalla fatica dei lunghi cammini. Come la lettera di Daniela, per esempio, infermiera di Medici Senza Frontiere, affidata al web qualche giorno fa. Un atto di accusa, gentile e moderato, che sferza la coltre di indifferenza (e cattive politiche). Come i video e foto condivisi in diretta, senza montaggi o commenti. Tanto, non ce n’è bisogno…
O come questo reportage di Fotomovimiento, progetto nato da un collettivo di fotografi catalani… continua su vociglobali