Marco Paolini, pedagogista che si occupa della formazione degli operatori, auspica una reazione “da parte di tante brave persone che ogni giorno fanno bene un lavoro complesso, faticoso ma anche bello”. “I servizi devono essere delle case di vetro senza porte o, comunque, con le porte aperte”
ROMA – E’ di pochi giorni fa l’ennesima notizia di violenza su un bambino con disabilità in una scuola romana: negli ultimi tempi sembrano essersi moltiplicati gli episodi di abusi, maltrattamenti commessi da insegnanti, educatori e operatori verso persone deboli e a loro affidate. Ne parliamo con Mario Paolini, pedagogista, musicoterapeuta, docente e formatore, che il prossimo 23 marzo a Roma terrà un incontro, promosso dalla Cooperativa “L’Accoglienza” e con il patrocinio di “Casa al Plurale”, dal titolo “Disabilità e qualità dell’incontro. Relazioni interpersonali nell’educazione e nella cura”.
Il suo lavoro è formare coloro che si prendono cura delle persone con disabilità. E a proposito dei recenti casi di violenza commessi da alcuni di questi, ha parlato di “silenzio assordante della categoria”: è solo una provocazione?
E’ la richiesta di uno scatto d’orgoglio da parte di tante brave persone che, ogni giorno, fanno bene un lavoro complesso, faticoso, ma anche bello. Il silenzio non è solo di adesso: qualche anno fa, quando la crisi ha colpito molti enti pubblici, provocando situazioni pesanti sui servizi, la categoria degli educatori e degli operatori restò in silenzio, limitandosi a iniziative locali, incapace di tessere reti. Forse serve più tempo o forse siamo talmente abituati a vedere cose che non vanno che, anche questi episodi, non riescono a invertire la tendenza. Ci sono alcune cose da fare perché resti invalicabile ciò che separa la violenza e il corretto agire anche nelle situazioni difficili; e per conoscere i fenomeni e migliorare la prevenzione serve parlarne.
Si è portati a pensare: “nella mia scuola/nella mia comunità queste cose non potrebbero mai accadere”, eppure esistono delle forme di violenza strisciante. Fra gli stessi operatori c’è consapevolezza del rischio di essere contagiati?
Credo che la consapevolezza ci sia, basta poco per farla emergere, ma allo stesso tempo è forte lo stupore per cose che si sentono lontane. Quando molti anni fa, venni a conoscenza della vicenda dello sterminio dei disabili e dei malati di mente durante il nazismo, ricordo che la mia reazione fu di malessere verso me stesso, perché quei fatti obbligavano me a fare i conti con la banalità e la facilità con cui si può diventare così. Forse si dovrebbe ricominciare a garantire delle buone supervisioni, dei percorsi di aggiornamento che stimolino le persone ad aver voglia di tenere accesa la passione verso il proprio lavoro, indagando le normali piccole cose quotidiane, perché violenza può essere uno sguardo, un tono di voce, un silenzio. E da soli è difficile accorgersi di essere andati oltre.
Quali sono i “trucchi” per fronteggiare il logoramento, la stanchezza, la solitudine di docenti, operatori, educatori?
Quando ne parlo con le persone che incontro, dico sempre che bisogna maggiormente condividere le cose belle nel lavoro e si cede al logoramento se si perde la voglia di aver cura di sé, dell’equipe, della rete. Un trucco è scrivere, avere memoria di sé, ma con una scrittura che si offra ad altri, non un diario intimo. È un errore scrivere solo cose che riguardano chi è destinatario dell’intervento, è interessante includere anche sé, perché nella relazione si è almeno in due. Oltre alla manutenzione delle strutture è davvero importante la cura e la manutenzione del capitale umano: la solitudine, secondo me, è la cosa peggiore e mi sembra di vederne tanta. È strano perché tutto è cominciato con processi di partecipazione, di incontro, di contaminazione. Se vogliamo davvero consolidare ciò che è stato realizzato, dobbiamo aumentare il numero di persone che ritengono quel che facciamo bene comune e di cui tutti siamo responsabili.
Da situazioni di crisi nascono opportunità: quale è il salto che occorre fare per garantire l’integrazione e coinvolgere le persone che sono estranee a questo mondo?
I servizi devono essere delle case di vetro senza porte o, comunque, con le porte aperte, permettendo a tutti di comprendere che sono più “interessanti” le ragioni di un modello inclusivo rispetto a quelle dell’esclusione, della violenza, dell’abuso. Non è il mondo dei sogni, anche se la cultura dell’inclusione resta una cultura di minoranza. Ma forse anche per questo è importante non isolarsi; non servono Don Chisciotte ma don Milani, straordinari sognatori entrambi, ma il secondo era più bravo a menare. E poi uno dei diritti che dovremmo garantire alle persone fragili è quello all’autodeterminazione, significa poter scegliere, poter essere. E’ bello ma spaventa, è un’altra fune da sganciare affinché la nave vada per la sua rotta, non la mia; e noi dovremmo stare attenti a permettere a tutti la navigazione. (Carmela Cioffi)