Di Alessandro Cardulli
Come un tam tam la parola “guerra” circola nei media. Non sono solo quelli della Lega a prendere nelle mani la bandiera del razzismo, quasi un “armiamoci e partite”. Salvini si esibisce in quella che, se la situazione non fosse drammatica, sarebbe una parodia oscena della politica. Vuole cacciare dall’Italia e dal mondo i musulmani, gli islamici che sono, cifre ufficiali, oltre 1 miliardo e 300 milioni. Li trovi in Iran, Turchia, Afghanistan, Pakistan, India, Cina, Malesia, Indonesia, nelle Filippine, in Europa, negli Usa, tanto per citare alcuni paesi. Sono la seconda religione monoteista. I cristiani, la prima religione, sono circa 2 miliardi, di cui 1 miliardo 254 milioni i cattolici.
Guerra, ma contro chi, dove? Il “califfato”, lo stato islamico che non esiste
Domanda: vogliamo aprire una guerra di religione? O vogliamo combattere e sconfiggere il terrorismo con le armi che sono proprie degli Stati democratici? La domanda non è retorica, perché la parola “guerra”, quella che si combatte con le armi, con i droni in particolare, non è solo appannaggio dei “salviniani”. La trovi nei titoli dei giornali, la sussurrano anche autorevoli personaggi della politica, del giornalismo, non solo delle testate di destra, con toni forcaioli.
Allora, guerra contro chi, dove? Andiamo a bombardare la Siria, ormai ci sono intere città ridotte a cumuli di macerie, già ci pensa Putin e vediamo i risultati. Proclamiamo la guerra contro lo Stato islamico dell’Iran e del Levante, Isis, che rivendica l’attentato a Bruxelles? “Faremo tremare l’Europa” è il messaggio che lanciano dal “califfato”, che non si sa cosa sia né dove sia.
Un’organizzazione sanguinaria, efficiente, non piccoli gruppi di disperati delle periferie
Una cosa ormai dovrebbe essere chiara: che si tratta di una organizzazione sanguinaria, non piccoli gruppi sparsi qua e là, efficiente, che non recluta solo i disperati delle periferie del mondo. Un arresto importante, a Bruxelles, non l’artificiere però, è avvenuto in un quartiere dove gli abitanti sono rimasti molto sconvolti. Rue de Bullenberg non è Molenbeek. “Questo – hanno detto – è un quartiere tranquillo, ci siamo meravigliati quando abbiamo visto la polizia”. Salah Abdeslam è stato libero di muoversi per molti mesi, non pensiamo che se ne sia stato chiuso nella casa con i parenti. Nel corso della operazione di polizia seguita alle rivelazioni del tassista che ha trasportato i tre terroristi all’aeroporto, durata tutta la notte, nell’appartamento 4 di Rue Max Roos a Shaerbeek sono stati rinvenuti “50 chili di esplosivo, lo stesso utilizzato dai terroristi negli attentati del 13 novembre a Parigi, 150 litri di acetone, 30 litri di acqua ossigenata, detonatori, una valigia piena di viti e chiodi oltre a altro materiale destinato alla fabbricazione di congegni esplosivi”. Possibile che il “traffico” non sia stato notato da nessuno? Non si tratta di singoli individui, di kamikaze reclutati qua e là. Per forza di cose devono esistere nei diversi paesi presi di mira, ora l’ Europa, centrali organizzate, non solo manovali ma menti ben addestrate che maneggiano esplosivi, timer con grande dimestichezza, in grado di mettere in piedi in poco tempo attentati spaventosi.
Il ruolo determinante che deve giocare l’intelligence in Belgio e non solo
È lì che bisogna colpire, che l’intelligence gioca il suo ruolo. In Belgio e non solo, non l’ha giocato. Già, il Belgio, oggi il grande accusato, il “Belgio fallito” che, dice Marco Minniti sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, “sta all’Europa come la Tunisia al nord Africa”, poi aggiunge: “Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeek è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. Parole pronunciate nel corso della riunione voluta da Renzi che ha incontrato, con i ministri Alfano e Gentiloni, gli esponenti delle forze politiche, i capigruppo. Non si capisce perché non una riunione del Parlamento, Camera o Senato, a segnare la straordinarietà dell’evento. O forse si capisce. Visto che il premier, lo dice lui, è una specie di dominus, il signore della Ue, non si capisce perché “sui problemi dei migranti ci sono riunioni a getto continuo e, come dice Emma Bonino, della sicurezza manco se ne parla”. Non poteva essere lui a farsene carico? Di più, l’accordo trovato con la Turchia che si “prende carico” di deportare i migranti, è una vergogna, si elimina il diritto di asilo, si “regala” al terrorismo un jolly, una carta in più per scatenare una campagna di odio contro l’Europa. Se è vero che le polizie del Belgio, sono più di una e non comunicano, lo è altrettanto il fatto che le polizie, i servizi dei 28 paesi della Ue, non sono “vincoli”, ma “sparpagliati”, richiamando parole sagge del grande Totò.
Il fallimento del Belgio sulla sicurezza, specchio di una Unione europea sempre più alla deriva
È lo specchio di una situazione sull’orlo della deriva dell’Unione, ogni paese va per conto proprio, gli Stati uniti d’Europa, una bandiera sempre più ingiallita, che non ha mai visto la luce. Il fallimento del Belgio in questo settore fondamentale della sicurezza è lo specchio dello stato fallimentare della Ue, degli accordi che non reggono più. I muri, i reticolati, le barricate andrebbero costruiti per combattere il terrorismo, non per respingere la povera gente che fugge dalle guerre, dalla miseria. Ci si dovrebbe chiedere quale politica ha portato avanti la Ue, i singoli Stati, a partire dal nostro, nei confronti di questi Paesi, dilaniati da guerre, povertà, retti da tiranni. Domande indiscrete. Per non turbare gli occhi del dittatore iraniano abbiamo perfino coperto le Veneri nei musei capitolini.
Nella lotta al terrorismo in Italia il ruolo di Moro, Berlinguer, dei sindacati, degli intellettuali
Infine, in alcuni talk show abbiamo ascoltato esponenti del governo, sottosegretari, esponenti del Pd richiamare l’esperienza italiana nella lotta al terrorismo, senza dubbio un fatto di straordinaria importanza. Non è detto che solo chi ha vissuto quegli anni abbia il diritto di parlare. Certamente, ma è perlomeno doveroso che chi sottolinea il valore dell’unità delle forze politiche, della coesione sociale, un paese unito dovrebbe dare una ripassata alla storia rileggendo quegli anni, gli “anni di piombo”, gli attentati, il paese che isola i terroristi. Magari ricordando che in quegli anni alla testa delle maggiori forze politiche italiane c’erano Aldo Moro e Enrico Berlinguer, che ci fu una straordinaria mobilitazione dei sindacati, la Cgil, in primo luogo, vale per tutti ricordare Guido Rossa, degli intellettuali. Già, quei sindacati e quegli intellettuali che Renzi e il suo staff di governo annoverano fra i “gufi”. Peggio ancora, nemici.