«Le 5 cose da fare per ripartire». Tra i pochi deputati presenti il lunedì alla Camera si discute del lungo editoriale di Francesco Giavazzi, pubblicato domenica in prima pagina dal Corriere della Sera. Il professore di politica economica all’università Bocconi di Milano, molto stimato negli Stati Uniti e in Europa, ha proposto un programma di governo in cinque punti a Matteo Renzi per impedire una nuova stagnazione e costruire una strategia di crescita economica per l’Italia.
Fioccano analisi ed ipotesi. Può essere un pressing sul presidente del Consiglio per dare “un colpo d’ala” mentre la situazione è tornata difficile, oppure può essere un segnale sulla strada verso un nuovo governo tecnico, una specie di Monti bis.
La ripresa economica italiana arranca: il reddito nazionale aumenta molto meno delle stime (il Pil segna più 0,8% invece di più 0,9% nel 2015 e salirebbe dell’1% e non dell’1,6% nel 2016). Le ragioni sono tante. Le conseguenze, per l’occupazione e i conti pubblici, sono pericolose. Ci sono le cause internazionali: il crollo delle Borse mondiali, la crescita economica rallentata in Cina, la ritirata degli investimenti dei paesi petroliferi per il calo del prezzo del greggio, la caduta dei consumi in Europa, il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, il continuo afflusso di profughi dalle nazioni arabe sconvolte dalle guerre civili, un possibile intervento militare occidentale (Italia compresa) in Libia contro il terrorismo islamico.
Tuttavia la “ripresina” dell’Italia, sempre molto inferiore alla media europea, ha anche motivazioni nazionali: troppe tasse e un elevato debito pubblico. Così la commissione europea, pur mettendo da parte le passate rudezze, ha sollecitato Renzi al rigore finanziario dei parametri per l’euro, l’ha invitato ad attuare e a completare le riforme strutturali del governo.
L’establishment italiano, con toni eleganti, preme parallelamente sul presidente del Consiglio con obiettivi analoghi. Il braccio di ferro è in pieno svolgimento. Renzi contesta la politica di rigore europea, chiede flessibilità sui conti pubblici ed investimenti per favorire la crescita e l’occupazione. S’impegna a continuare sulla strada delle riforme e conferma la volontà di tagliare la tasse. Ha riconosciuto: «L’Italia aveva il segno meno al Pil e ora ha il segno più, ancora non è sufficiente come sull’occupazione».
Riflette su come procedere. Secondo molti dovrebbe aggiornare e cambiare il programma di governo. Giavazzi, sul Corriere della Sera, ha lamentato «l’esaurirsi dello slancio riformatore» dell’esecutivo ed ha indicato al presidente del Consiglio una “agenda di riforme” da realizzare nei prossimi due anni, prima delle elezioni politiche all’inizio del 2018. In sintesi: 1) risanamento delle banche in difficoltà (cominciando dal Monte dei Paschi di Siena); 2) taglio delle tasse soprattutto alle imprese e riduzione della spesa pubblica; 3) investimenti pubblici; 4) regole per far decollare la concorrenza; 5) lotta alla corruzione pubblica.
Per realizzare la sfida del renzismo diretta a “modernizzare” il Paese, Giavazzi ha incitato soprattutto a ridurre le imposte gravanti sulle aziende, diminuendo l’Ires e cancellando l’Irap, e puntando a «un taglio permanente del cuneo fiscale» (le tasse sul lavoro). Ha usato parole decise anche verso l’Unione europea d’osservanza tedesca: «Le tasse vanno abbassate, anche se questo comportasse un deficit temporaneamente superiore al 3% e l’apertura di una procedura d’infrazione della Commissione europea». Ha avvertito: «Se si vuole una battaglia con Bruxelles bisogna che ne valga la pena».
Ma per rendere credibile all’Unione europea e ai mercati finanziari internazionali il piano di riduzione di 2 punti delle imposte (ora la pressione fiscale è al 43%) «è necessario un programma di corrispondenti tagli di spesa da attuare in un triennio». L’economista bocconiano, espressione del pensiero di gran parte della borghesia italiana, ha indicato delle strade: si può ad esempio anticipare «già quest’anno una riduzione drastica delle 8 mila società municipalizzate e la chiusura di quelle senza dipendenti e con fatturati ridotti».
Sul tavolo ci sono rischi e vantaggi, vanno valutati i possibili costi politici e le prospettive di ridare un futuro di crescita all’Italia. Un programma di questo tipo comporta anche delle scelte impopolari da attuare, rischiose soprattutto a ridosso di elezioni (a giugno si voterà in molte città per eleggere i sindaci e in autunno per il referendum sulla riforma costituzionale del governo). Giavazzi ha invitato ad avere coraggio: «Navigare a vista è più semplice, e forse elettoralmente più vantaggioso, rispetto al perseguire un ambizioso progetto di riforma del Paese. Ma è un lusso che non ci è più concesso».
Adesso dipende da Renzi quale “cura” somministrare per far correre “la locomotiva” dell’Italia, sostenendo una duratura e decisa ripresa economica. «L’Italia è cambiata, è ripartita», ha osservato il presidente del Consiglio. È vero, la Grande crisi è passata, tuttavia dopo due anni di governo Renzi il Paese fa fatica a riprendersi, l’occupazione arranca, i conti pubblici rischiano di tornare fuori controllo, dobbiamo ancora recuperare la vitalità di un tempo. È una scommessa difficile.
La storia sembra ripetersi. Il fondo di Giavazzi ricorda quello di quasi 5 anni fa scritto dal professor Mario Monti, anche lui economista bocconiano di fama internazionale, pubblicato sempre sulla prima pagina del Corriere della Sera, titolato “Lettera al premier”. Era praticamente un programma di governo lacrime e sangue, mentre una grave crisi finanziaria stava demolendo i titoli del debito pubblico, mettendo in ginocchio l’Italia.
Si sa come andò a finire. Pochi giorni dopo Silvio Berlusconi, nel novembre 2011, fu sfrattato da Palazzo Chigi, Monti prese il suo posto e divenne presidente del Consiglio di un governo tecnico con il compito d’impedire il crollo dei titoli del debito pubblico, il collasso del Paese e l’uscita dall’euro. Monti fece il salto da economista a presidente del Consiglio, Giavazzi per ora resta solo professore di economia all’università Bocconi. Qualcuno, però, vede avvicinarsi l’ombra di un nuovo governo tecnico, ipotesi emersa nei giorni scorsi su alcuni giornali.