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Controllare, condizionare, imbavagliare. Le minacce all’informazione nella Relazione di Claudio Fava

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In cinquant’anni è la prima volta che la Commissione antimafia si concentra sul rapporto tra mafie e informazioni. A presentare il lavoro è il vicepresidente della Commissione, Claudio Fava, che, nella Sala Stampa della Camera dei Deputati, spiega come la Relazione sia il frutto di un’urgenza che oggi si avverte distintamente in un Paese che conta duemila giornalisti minacciati in quattro anni. Non soltanto: se da una parte le piaghe di querele temerarie e precariato vessano l’informazione nostrana, dall’altra ci pensano le «teste piegate» a peggiorare la situazione: editori e giornalisti che si prestano al gioco del consenso mafioso, di fatto alimentandolo. Come sottolinea l’Onorevole Fava, si rende necessaria un’azione forte e incisiva che non si limiti alle manifestazioni di solidarietà nei confronti dei giornalisti minacciati, ma che colpisca il cuore del problema. A camminare accanto alla Commissione antimafia è anche la Federazione Nazionale della Stampa italiana: quando si deciderà di promuovere l’azione legislativa, la FNSI sarà «assolutamente schierata a sostegno delle proposte che saranno formulate e si metterà a totale disposizione della campagna». A dirlo è il presidente Giuseppe Giulietti.

E’ la prima volta che viene approvato un documento su queste tematiche: non si tratta di un titolo di merito, ma il segnale di un’urgenza. Che cosa è cambiato rispetto al passato?
Un tempo le mafie volevano solo intimidire, colpire e punire, mentre adesso vogliono anche condizionare perché hanno bisogno di legittimazione sociale, di legittimazione territoriale, perché hanno bisogno di consenso. Il tema del consenso ha fatto irruzione nei nuovi paradigmi della organizzazione mafiosa ed è un tema importante, perché passa anche attraverso la capacità di costruire delle sponde e degli strumenti di consenso nelle società. Condizionare, controllare, irretire, imbavagliare l’informazione diventa importante per garantire questo consenso e questa impunità. Questo ha portato ad un livello crescente di interventi sulla stampa, di minacce, di avvertimenti, ma anche ad una dimensione crescente di modalità con cui tutto questo si esercita. Un tempo le minacce avevano un impianto più tradizionale, adesso l’uso e l’abuso di alcuni strumenti del giudizio è cosa relativamente nuova: rappresenta un terzo delle minacce che sono state censite in questi anni. Ormai si minaccia spesso, ricorrendo a strumenti del diritto – ovviamente usati in modo illegittimo – perché sono forma di condizionamento. Altre forme di condizionamento sono anche economiche: creare un isolamento economico ad una redazione, ad un editore, ad un giornale, ad un giornalista attraverso molti mezzi è anche questo un modo per mettere a tacere o per condizionare o per determinare condizioni di dipendenza. In questo si manifesta un’urgenza particolare da parte nostra di prendere in mano la questione.

Al centro della relazione, quindi, c’è il nodo delicato delle querele temerarie. Alla luce dei dati raccolti dalla Relazione, quanto influiscono sulla libertà di informazione nel nostro Paese?
Un terzo dei casi censiti sono passati per le querele temerarie o per le citazioni in giudizio temerarie perché del tutto infondate, sul piano giuridico, ma sul piano materiale destinate a produrre effetti. Poco importa se chi è citato in giudizio sappia di avere ragione; ciò che importa è che si debbano affrontare spese legali e condizionamento psicologico, mentre dall’altra parte c’è un soggetto che non ha alcun problema sul piano economico. C’è quindi anche uno squilibrio di forze.

Come si può intervenire?
Bisogna intervenire e fare in modo che chi decide di ricorrere in modo oneroso a uno strumento giuridico – una citazione in giudizio, una querela – non per ottenere risarcimento ad una offesa ricevuta, ma semplicemente per intimidire, condizionare dolosamente, debba essere chiamato a pagare, e non soltanto le spese legali legate al procedimento giudiziario. C’è un emendamento all’esame in Commissione Giustizia sul Processo Civile che tratta della possibilità per i giudici di condannare un’ammenda che copra fino al 50% della richiesta. Questo mi sembra un risultato importante, qualora passasse, perché a quel punto chi, in modo millantato, pretende di aver ragione e chiede dieci milioni di risarcimento, con il rischio di doverne restituire cinque allo Stato ci pensa due volte.

L’altro problema affrontato dalla Relazione è quello del precariato, il cosiddetto «caporalato» dell’informazione.
Buona parte dell’informazione, soprattutto quella di frontiera, quella più esposta, quella destinata a raccontare di più, più in profondità e meglio i territori, è un’informazione affidata a giornalisti spesso precari o che giornalisti non sono dal punto di vista delle leggi dello Stato, perché non sono iscritti all’ordine, ma che lo sono a tutti gli effetti per il mestiere che fanno; freelance, la cui caratura professionale sul piano economico è minima, pagati pochi euro a pezzo e costretti anche a rischiare la pelle. Su questo bisogna immaginare un intervento su più livelli, anche in Parlamento. Tocca alla Commissione antimafia sensibilizzare, fare in modo che ci sia un’attenzione e uno sguardo diverso su queste tematiche da parte del Paese, da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, da parte dei giornalisti e da parte dell’opinione pubblica – che, poi, è l’utente immediato dei giornalisti.

Quale è il peso della Relazione e che cosa si propone di fare?
Il peso della Relazione dipende dall’eco che avrà e potrà riuscire non soltanto a costruire percorsi legislativi nelle Camere, ma anche ad aprire una discussione nel Paese, e di questo ce n’è molto bisogno. Mi sembra che gli elementi per discuterne ci siano tutti: c’è una sensibilità particolare ai vertici della Federazione Nazionale della Stampa e dell’ordine; è un tema di cui si discute spesso e, per fortuna, senza limitarsi all’autoflagellazione, alla lamentazione, all’atto di superiorità dovuta, ma ponendosi il problema di cosa sta accadendo nel rapporto tra informazione e sviluppi di potere mafioso – e non solo mafioso –, che tipo di condizionamenti, che tipo di compiacenze, abitudini e reticenze che spesso si determinano.


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