Parla Christian Elia, condirettore di Q Code. E non ha dubbi: l’accordo Ue-Turchia è un male, perché delocalizza la gestione dei flussi migratori, lasciandoli in mano a uno Stato che non rispetta i diritti umani. Bocciata l’idea di un intervento militare: “Abbiamo a che fare con microcellule nate in territorio europeo. Si parta da qui”
BOLOGNA – “Dell’accordo tra Unione Europea e Turchia penso tutto il male possibile: non è che un ulteriore passo verso l’esternalizzazione della gestione dei flussi, un nuovo passaggio del Processo di Khartoum, che a fine 2014 stravolse l’approccio al fenomeno migratorio mirando a ‘delocalizzare’ le responsabilità di coordinazione dai Paesi Europei ai Paesi di transito e origine”: Christian Elia, condirettore di Q Code Magazine, commenta così l’accordo Ue-Turchia. “Fin dai tempi del Medioevo ci sono state realtà che hanno affidato la loro sicurezza interna a tribù di nomadi con il compito di controllare le frontiere”. La Turchia, spiega Elia, non può ospitare altre persone, considerate anche le fortissime pressioni interne, schiacciata dalla crisi economica e politica com’è. “Per arrivare a stringere l’accordo con l’Unione, la Turchia, come in un bazaar, ha messo sul piatto tutto quello che aveva per ricattare l’Europa. Ed è l’Europa, dal canto suo, a rendersi ricattabile come ai tempi di Gheddafi. Il punto è che nessuna istituzione vuole gestire il fenomeno migratorio”.
Quindi l’accordo Ue-Turchia non sarà messo in discussione dopo i fatti di Bruxelles?
Assolutamente no, anzi. Io credo che l’accordo ne uscirà rafforzato. Più passerà il nesso tra migrante e terrorista, più la gente accetterà di pagare uno Stato che faccia quello che diciamo noi, e che ci tenga questi uomini alla larga. E pazienza se si tratta di uno Stato che non rispetta i diritti umani. E pazienza se vedremo ridotte anche le nostre libertà.
E per quello che riguarda la redistribuzione dei migranti tra gli Stati membri?
Sulla carta il concetto di redistribuzione è corretto: pensare di collocare 200 mila rifugiati e richiedenti asilo in un continente da 500 milioni di persone ha senso. Già alla fine dello scorso anno, a Malta, Angela Merkel – a cui va dato il merito di averci almeno provato – mise in guardia il Leviatano europeo, ricordando che senza accordo sui migranti, Schengen salta. E se salta Schengen, salta l’Europa. Naturalmente, non è accettabile che gli Stati membri chiedano di scegliere chi accogliere; così come è discutibile il meccanismo alla base dei ricollocamenti. Ci sono liste d’attesa, vige il principio ‘uno contro uno’, per cui per ogni migrante rimpatriato, un altro sarà ammesso. E la chiusura della rotta dei Balcani è del tutto inutile: queste persone in fuga troveranno presto un’altra strada, la troveranno sempre. Ora si parla dell’Albania e dell’Adriatico: forse.
C’è chi, dopo gli attentati di Bruxelles, è tornato a chiedere un intervento militare congiunto in Siria e Iraq.
Sono assolutamente contrario: gli interventi militari non risolverebbero nulla. Nessuno di noi si è mai sognato di bombardare Palermo per sconfiggere la mafia o di bombardare la Russia ai tempi della dittatura comunista. Dobbiamo renderci conto che nel caso di Daesh abbiamo a che fare con microcellule a radice familiare che si radicalizzano su Internet e non nelle moschee, cellule che prosperano in carcere, perché questi terroristi nella stragrande maggioranza dei casi hanno alle spalle condanne per microcriminalità che li hanno portati in prigione. Parliamo di gruppi di 20, 22 persone. Poi scopriamo che alcuni dei responsabili degli attentati a Bruxelles erano già noti alla polizia belga. E non dimentichiamo che gli attentatori in molti casi hanno il passaporto belga o, comunque, un legame con il Belgio. Che senso ha bombardare Siria e Iraq? Meglio partire dalle nostre periferie.
Come si dovrebbe intervenire?
Secondo me tutti i vertici dei servizi belgi dovrebbero dimettersi. Il Belgio è uno Stato dove la divisione etno-linguistica sembra insanabile, con i diversi servizi e unità che non comunicano tra di loro. Invece la collaborazione tra tutti è fondamentale, serve che le intelligence lavorino insieme. Invece che pensare a un intervento militare, sarebbe meglio tracciare le rotte delle armi e degli esplosivi, seguirne gli spostamenti. Controllare il mercato nero, cercare i finanziatori e colpirli. Dobbiamo togliere l’acqua in cui questi terroristi nuotano, togliere loro gli appoggi economici, la protezione che in tanti oggi continuano a fornire. E pensare che questo è il risultato di 15 anni di lotta al terrorismo.
Come siamo riusciti a far nascere e crescere un fenomeno come Daesh? Dove ha le sue radici?
Le radici di Daesh vanno cercate nell’invasione dell’Iraq dell’inizio degli anni Duemila che portò alla caduta del regime di Saddam Hussein. Cosa successe ai vertici dell’intelligence di Saddam? Nessuno si è mai posto il problema di come gestire quel gruppo, ma sono loro le fondamenta di Daesh. All’inizio si legarono ad Al Qaeda, ma tra 2010 e 2011, quando rischiarono di scomparire, scelsero la scissione, optando per un restyling. Fu in quel momento che emersero figure come quella di al Baghdadi, che già godeva di appoggi solidissimi. Fu allora che si inserirono nella sollevazione siriana contro Assad: studenti e lavoratori avevano cominciato a ribellarsi, ma le loro denunce rimasero inascoltate anche da tutto l’Occidente. Fu a quel punto che Daesh entrò nella resistenza siriana, forte anche di grande capacità persuasiva, professionisti com’erano di una guerra che chiamavano religiosa. Presto trovarono finanziamenti da parte dei Paesi del Golfo, armi, e si guadagnarono con prepotenza un posto nel mercato nero dei reperti archeologici, che spesso poi finiscono nei salotti borghesi londinesi.
Cosa ci dobbiamo aspettare ora?
Anche io sono preoccupato per la sicurezza europea, per questo chiedo di spingere sull’opinione pubblica per mettere al muro l’opzione armata. E non si tratta di non voler intervenire per evitare di diventare bersaglio evidente, si tratta proprio della constatazione che l’intervento armato non è mai servito a nulla. Sono 15 anni che facciamo guerre e creiamo un disastro dopo l’altro: oggi il Medio Oriente rischia di implodere.
L’Italia è a rischio?
Fino a qualche anno fa avrei risposto di no, ora non ne sono così sicuro. Perché l’Italia c’è già dentro questo meccanismo: ricordiamo che ogni giorno dalla base di Sigonella partono droni per i cosiddetti ‘interventi mirati’. Credo poi che più alto sarà il livello di coinvolgimento italiano nella questione libica, più il nostro Paese sarà a rischio. (Ambra Notari)