Torno a Diyarbakir neanche tre mesi dopo le elezioni politiche di novembre, a cui ho partecipato come osservatrice. Allora la città era animata e brulicante; regnava la speranza che l’HDP, il partito democratico filocurdo, potesse ripetere il successo ottenuto nel voto di giugno, quando per la prima volta era riuscito ad entrare in parlamento, superando la soglia di sbarramento del 10%. Certo, a Sur, la città vecchia (patrimonio Unesco insieme alle splendide mura di granito nero che la circondano) avevo visto i segni degli scontri a fuoco tra l’esercito e i cittadini che avevano proclamato un pacifico autogoverno: il coprifuoco che si era protratto per quattordici giorni, c’erano state vittime civili e case e moschee portavano i segni dei proiettili, ma la tensione non riusciva a soffocare la vita quotidiana. Poi il voto ha restituito a Erdogan la maggioranza assoluta (ma l’HDP è riuscito di nuovo a superare il 10%), e il timore di un inasprimento della repressione si è fatto concreto.
Questa volta sono con una delegazione di avvocati turchi ed europei. Veniamo a Diyarbakir per raccogliere testimonianze e documentazione sulle violazioni dei diritti umani commesse dalla Turchia nei confronti dei suoi cittadini curdi. Partiamo sapendo che gran parte di Sur è sotto coprifuoco da 52 giorni consecutivi e che la situazione è molto tesa, ma quello che ci aspetta al nostro arrivo va oltre la nostra immaginazione.
Sur è transennata, non si entra e non si esce. Quello che viene definito “coprifuoco” è un vero e proprio assedio che dura 24 ore al giorno. Ogni tanto viene concessa qualche ora di respiro in cui si può uscire per strada o lasciare il quartiere, ma è meglio affrettarsi a tornare a casa: il coprifuoco viene ripristinato improvvisamente e spesso senza che la popolazione sia informata; agli ignari che si trovano per strada l’esercito spara senza preavviso. Dentro Sur, elettricità e connessione alla rete vanno e vengono. L’esercito ha demolito molte delle vecchie e fragili case travolgendole con i suoi enormi blindati. Il nostro albergo è a trecento metri dall’inizio della zona chiusa: a ogni ora del giorno e della notte si sentono colpi di mitragliatrice e di cannone. Le organizzazioni per i diritti umani stimano oltre 160 morti tra i civili, di cui quasi la metà sono donne, bambini o uomini ultrasessantenni. Le condizioni igieniche sono pessime: manca l’assistenza sanitaria; la popolazione non è neppure autorizzata a raccogliere i cadaveri rimasti per strada dopo gli scontri a fuoco. Mentre siamo lì si celebrano i funerali di due ragazzi uccisi diciotto giorni prima.
Informazioni più precise è impossibile averne: a nessuno è permesso entrare a Sur, neppure alle delegazioni internazionali, neppure ai medici e agli infermieri che ogni giorno si presentano ai posti di blocco chiedendo di essere autorizzati a prestare soccorso ai feriti più gravi e a portar via i bambini ammalati e vengono prontamente rispediti indietro. Anche le zone della città vecchia formalmente non soggette a coprifuoco sono in sostanza off limits per chiunque e altrettanto pericolose. Alle transenne che imprigionano dentro oltre 120.000 persone è sconsigliabile perfino avvicinarsi: scatto una foto all’inferriata che sbarra una via secondaria, un poliziotto scende dalla camionetta e mi ordina di cancellarla, vuole vedere tutte le foto che ho scattato, quelle che mostrano i blindati non posso tenerle.
Da Sur è in corso un esodo silenzioso: si stima che fino ad ora se ne siano andate oltre 22.000 persone, stremate dall’assedio e dai bombardamenti. Chi lascia la sua casa è sotto shock, non ha voglia di parlare, cerca solo di trovare un riparo e qualcosa da mangiare per sé e la sua famiglia. L’amministrazione comunale osserva impotente: non può interloquire con le autorità centrali sulla gestione del coprifuoco e non ha fondi sufficienti per assicurare adeguata assistenza materiale ai suoi cittadini.
Quanto durerà tutto questo, per quanto ancora gli abitanti di Sur rimarranno sotto l’assedio dell’esercito, per quanto decideranno di resistere, di restare nelle proprie case, non è dato sapere. Di giorno in giorno si fa più assordante il silenzio dell’Europa su questa atrocità.
*Giuristi democratici