Stanno morendo di sete. Stanno morendo dissanguati nel silenzio più totale dei media. Da oltre due settimane trentuno persone sono bloccate nei sotterranei di un palazzo a Cizre, sud-est della Turchia, scelto come estremo rifugio per fuggire dagli scontri con la polizia turca; quindici di loro sono ferite gravemente. Sette hanno già perso la vita perché, da allora, l’esercito turco ha impedito l’arrivo delle ambulanze, opponendosi al trasporto in ospedale, racconta il giornalista Ercan Ipekci. Le foto arrivate il 29 gennaio parlano di una situazione drammatica: uomini feriti, medicati con strumenti di fortuna, alcuni di loro tra la vita e la morte. Intanto, fuori, i blindati hanno attaccato l’edificio colpendolo con artiglieria pesante: “Stanno cercando di demolirlo – scrive una delle persone intrappolate in contatto col deputato Hdp (il partito filo-curdo) Faysal Sariyildiz – stiamo solo aspettando di morire e con noi muore anche l’umanità”. Lo stesso parlamentare racconta all’agenzia kurda AnfEnglish il blocco delle ambulanze: “Non siamo in grado di raggiungere i feriti, una situazione disumana. Chiamano il 155, il numero d’emergenza, che gli dice di uscire, ma parte subito il fuoco contro chi ci prova. Nell’incontro con il governatore ci è stato detto di convincerli a uscire e a raggiungere le ambulanze ma non possono farlo. Sono già morte 4 persone, tra loro una donna e due studenti universitari». Faysal Sariyildiz, dopo giorni passati nell’inutile tentativo di salvare i civili – scrive un sms disperato: “Mi uccido, è troppo. Non voglio più sentire urlare per l’acqua”.
Da cinque giorni le comunicazioni sono state interrotte e non si hanno più notizie dallo scantinato diventato una tomba: il palazzo è quasi crollato sotto i colpi di mortaio ed è accerchiato dai carri armati. Le persone sono state abbandonate lì dentro, tra le macerie, a morire, mentre fuori continuano a risuonare colpi di artiglieria dell’esercito. Foto diffuse via Twitter mostrano i carri armati impedire l’accesso delle ambulanze, contro qualsiasi regola imposta dalla Corte Europea per i diritti umani. Sui social molti attivisti parlano di “crimini di guerra” e lanciano diversi hashtag: #WarCrimeInABasement, ma soprattutto #AmbulanceToCizre. Perché questo è l’appello più forte alla comunità internazionale: qualcuno intervenga affinché almeno i civili feriti possano essere soccorsi e portati in ospedale. Da una settimana tre deputati dell’Hdp sono in sciopero della fame per chiedere che le persone nello scantinato di Cizre non siano lasciate a morire dissanguati.
La situazione di quei giorni a Cizre sotto coprifuoco l’aveva ben documentata Refik Tekin, cameramen di IMC TV. Riguardiamo le immagini che ha girato.
Erdoğan e dal premier Davutoğlu. Vogliono raccogliere i cadaveri dei loro cari, uccisi dall’esercito, lasciati a decomporsi sulle strade da giorni. Ci sono donne e anziani, alzano la bandiera bianca mentre trasportano le bare. Si vede un blindato in fondo alla strada. Iniziano gli spari. Refik Tekin continua a riprendere: davanti ai suoi occhi cadono a terra due persone che moriranno poco dopo; la camera si macchia di sangue, ma lui non smette di riprendere. Anche Refik viene trafitto da un proiettile e verrà portato in ospedale: il giorno dopo tramite un messaggio privato via Twitter mi scrive che verrà arrestato perché ritenuto sostenitore del terrorismo, mi chiede di cancellare l’intervista. Da quel giorno, il 22 gennaio, non ho più notizie di lui.
Persone che spariscono, dati ufficiali impossibili da ricostruire. Con il convincimento che nelle città curde si nascondono terroristi del Pkk, il governo colpisce indistintamente tutti i civili. Lo fa imponendo il coprifuoco: vale a dire, quartieri che rimangono senza luce né acqua per giorni, impossibilità di accedere alle cure mediche, scuole chiuse per i bambini. L’esercito spara a chiunque scenda in strada.
E così, la popolazione curda – piegata, terrorrizzata, spesso senza più nemmeno una casa, polverizzata da bombe o proiettili di Ak47 – sceglie di andarsene. Di abbandonare la propria terra con sacchi enormi sulle spalle contenenti la loro intera esistenza, stremati da una guerra civile strisciante. Si stima che siano oltre 20mila. È difficile definire quello che sta accadendo quando le notizie sono così parziali e frammentarie, eppure sembra di essere di fronte a un esodo silenzioso che assomiglia molto alla pulizia etnica. Con il terrore generato dal coprifuoco si sta alterando la demografia di quelle zone al confine con la Siria e l’Iraq, ricche di pozzi petroliferi e abitate a maggioranza da curdi che votano in gran parte Hdp, il partito che nelle elezioni di giugno fece perdere all’Akp la maggioranza assoluta, superando l’altissima soglia di sbarramento del 10% e costringendo Erdoğan a elezioni anticipate.
La scorsa settimana una delegazione di avvocati europei – composta da European Association of Lawyers for Democracy and Human right (ELDH) e dall’“Unione Camere Penali Italiane” – si è recata a Diyarbakir. Nel loro report gli avvocati parlano di sistematiche violazioni dei diritti umani, descrivono “civili ostaggio dei militari”, affermano che serve un immediato intervento internazionale. Ma più passano le ore, più oltre 30 civili, tra cui un ragazzino di 13 anni, Veli Kucuk, rischiano di morire dissanguati. Quanto possiamo ancora aspettare?