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Trapani, la periferia dove il fango diventa notizia

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Trapani non è mai stato un territorio facile, sotto molti punti di vista. Trapani è una delle roccaforti del potere mafioso, anche se nelle gerarchie criminali ha occupato sempre la piazza d’onore alle spalle di Palermo. Non solo da decenni è la patria ospitale di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss latitante della fazione corleonese, uscita perdente dalla duplice strategia dell’attacco allo Stato e della contestuale trattativa sotto banco con alcuni esponenti infedeli delle istituzioni. Trapani è il luogo dove mafia e massoneria sono da sempre due facce della stessa medaglia e ammorbano con la loro presenza asfissiante perfino l’aria che si respira. A Trapani fanno più notizia i veleni dei fatti e il mondo del giornalismo, purtroppo, si presta – consapevolmente o inconsapevolmente? – a veicolare accuse e voci che servono a “mascariare”, a macchiare cioè la reputazione di quanti finiscono nell’ormai nota macchina del fango.

Nelle ultime settimane sono tornate prepotentemente alla ribalta alcune accuse infondate ai danni di Rino Giacalone (nella foto), da sempre tra i compagni di viaggio più preziosi di Libera Informazione, tanto sotto la direzione di Roberto Morrione che sotto quella di Santo Della Volpe. Ecco perché di fronte ai nuovi rumors provenienti dall’isola siamo andati a rileggerci l’ultimo articolo di Santo Della Volpe, scritto ai primi di giugno dello scorso anno, per solidarizzare proprio con il valente collega.

«Alla vittima Rino Giacalone viene chiesto di discolparsi, mentre erano i giornalisti che lo hanno messo in mezzo che avrebbero dovuto avere la certezza di quel che dicevano o scrivevano prima di fare il suo nome. E, tanto per rincarare la dose, c’è anche chi dice che ora Giacalone dovrebbe querelare per diffamazione, per fare ulteriore luce sulla vicenda»: è questo uno dei passaggi fondamentali di quell’articolo e purtroppo, nel frattempo, la situazione non è cambiata. Altri episodi si sono verificati da quando Della Volpe aveva inteso con il suo scritto smontare l’incredibile macchina del fango che si era messa in moto per delegittimare una delle voci più libere del giornalismo nel trapanese, dove la libertà di stampa è un traguardo da raggiungere ogni giorno e dove l’intimidazione può avvenire soprattutto via social oppure anche via media.

Ecco alcuni dei fatti essenziali.

Alla fine di aprile del 2015, il Giornale di Sicilia pubblica la notizia dell’esistenza di un’indagine a carico di un noto giornalista trapanese”, di cui non vengono fatti nome e cognome, “conosciuto anche grazie al suo impegno a sostegno della legalità” che sarebbe rimasto coinvolto in una vicenda di favori illeciti di tipo giudiziario/processuale nei riguardi di un imprenditore, anche questo rigorosamente mantenuto nell’anonimato. Accuse pesanti quelle che sono ipotizzate e che vengono protette con il richiamo alla tutela delle proprie fonti. Tuttavia tentata estorsione e millantato credito non sono reati di poco conto e accuse del genere, se dimostrate e vere, minerebbero la reputazione professionale e civile di chiunque, tanto più di un giornalista che fa del suo buon nome l’unica arma di difesa in terra di mafia.
Dopo un paio di giorni, un emittente locale di Trapani, Telesud, rilancia le accuse del quotidiano facendo i nomi tanto del giornalista, quanto dell’imprenditore (l’ex presidente di Confindustria Trapani Davide Durante), senza aggiungere alcuna prova a sostegno delle accuse e salvo poi richiedere, di fronte alle smentite arrivate in redazione, la produzione di elementi a discarico che dimostrino l’infondatezza degli addebiti.

Un modo alquanto bizzarro e strumentale di procedere, come ricorda Della Volpe nel suo pezzo: «Invece di approfondire a priori ed avere la certezza della prova e della fonte prima di scrivere un articolo o di andare in onda, si chiede alla persone messa in mezzo a sua insaputa e colpita da quei pesanti schizzi di fango, di discolparsi. È il capovolgimento dell’onere della prova che, in questo caso, chiude un circolo vizioso che colpisce un giornalista nella sua persona e nella sua professione».

Nelle ultime settimane il copione si ripete. A dare fuoco alle polveri ci pensa prima un lungo pezzo intitolato “Il caso di un professionista trapanese” e pubblicato su Social, un settimanale di Trapani, dove in quello che viene rubricato come “spazio autogestito” si attaccano nuovamente Giacalone e un altro cronista, Marco Bova di Tp24.it per avere falsato la ricostruzione di alcune vicende processuali riguardanti un professionista locale, basandosi unicamente sul comunicato stampa emesso dalla locale Procura della Repubblica.

Il testo non è firmato ma basta aspettare solo una settimana per avere la conferma di quanto si poteva già intendere dal continuo riferimento nel testo al “mio assistito”. Infatti, sette giorni dopo, sempre sullo stesso settimanale, compare una lettera con la quale l’avvocato Nino Marino si attribuisce la paternità del pezzo pubblicato anonimamente e rivendica la tutela legale del professionista che si trova nel mirino degli inquirenti. Nel pezzo anonimo, con una tecnica denigratoria già sperimentata con successo da Emilio Fede o più recentemente dall’avvocato Naso, nel suo attacco a Lirio Abbate, si fa riferimento a Giacalone, mai nominato direttamente, storpiando il nome del blog locale di informazione che dirige: Alqamah diventa infatti “Metalrotture Alcamo” oppure “Alcamo rottamata” o ancora “Rottami non ricordo più come”..

Ora la vicenda che riguarda il legale e il suo assistito non ci interessa. C’è da dire solo che chi dovesse ricostruirne la vicenda, rifacendosi solo al testo pubblicato come “spazio autogestito” su Social, poco ci capirebbe, in ragione di una prosa involuta, di una ricostruzione parziale, fatta di ammiccamenti continui e intercalari fin troppi faceti. Fin qui nessun problema, ognuno scrive come gli pare e sa fare. Il segretario dell’Assostampa di Trapani Giovanni Ingoglia però rilascia una nota per censurare la vicenda: «Se solo avesse voluto fare chiarezza sulla posizione del suo assistito, l’avvocato Marino avrebbe potuto utilizzare gli strumenti che la legge sulla stampa prevede mentre, doverosamente segnaleremo all’Ordine dei Giornalisti il direttore responsabile di Social che ha consentito la pubblicazione di uno spazio autogestito senza che ne venisse citata la committenza (la cui omissione, si riferisce, essere imputabile ad una dimenticanza) consentendo, a pagamento, un attacco diretto e diffamante nei confronti di due colleghi».

Stizzita la replica di Telesud che ribadisce la propria correttezza nell’aver riportato i fatti, cioè la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Giacalone: «Una notizia di iscrizione sul registro degli indagati non potrebbe mai essere “autentica” ma bensì verosimile per autorevolezza della fonte e logicità fattiva. Qualsiasi ipotesi di reato non resa pubblica da una informazione di garanzia piuttosto che da una richiesta di rinvio a giudizio non può che essere “segreta”; e per iperbole, come già scritto, non sarebbe “autentica” neanche se l’avesse riferita un Colonnello dei Carabinieri. Sull’autorevolezza comunque, abbiamo più volte chiesto le verifiche al nostro cronista per essere “sicuro” di ciò che stesse scrivendo; dopodiché, non è stato “fermato” ma difeso nel dovere di informare i lettori di una vicenda certamente di interesse giornalistico».

Peccato che quella vicenda di interesse giornalistico, in virtù della quale si rivendica la propria professionalità, non esista e si colga l’occasione per rilanciare accuse che sono infondate, facendo riferimento ad un presunto segreto istruttorio violato. Il sindacato dei giornalisti ha nuovamente replicato ma sembra di assistere ad un continuo braccio di ferro senza vincitori né vinti. Alcuni elementi di contesto vanno però aggiunti per comprendere i toni dello scontro.

L’avvocato Nino Marino, già segretario del Pci trapanese all’epoca dell’omicidio di Mauro Rostagno, possiede uno degli studi legali più importanti di Trapani e ha un figlio di nome Massimo che è presidente della società editoriale Telesud. La famiglia Marino cioè è il terminale di una cordata di professionisti e imprenditori locali che detengono la maggioranza delle quote proprio della piccola emittente, nella quale ha mantenuto una quota anche il senatore Antonio D’Alì, un tempo azionista di riferimento della stessa tv. Tanto le vicende di Telesud, compresi i sequestri antimafia disposti a carico di alcuni imprenditori, titolari di alcune quote della tv trapanese, quanto le pesanti disavventure giudiziarie di D’Alì, sono stati ripetutamente fatti oggetto di approfonditi articoli da parte di Rino Giacalone negli anni precedenti. Anche Libera Informazione ha pubblicato le corrispondenze del collega da Trapani.

Se vi sia un nesso causale tra le vicende esposte e l’attacco cui è sottoposto Giacalone, lasciamo che siano i lettori a deciderlo. Quel che è chiaro è come sia in gioco a Trapani la possibilità di potere praticare il proprio lavoro di giornalisti, senza finire nel tritacarne dei sospetti. In un contesto così complicato, l’unica possibilità d’uscita è il richiamo alla propria deontologia di operatori della comunicazione, come scriveva qualche mese fa Della Volpe: «E l’onere della prova deve tornare nelle mani del cronista. Questo per rispetto dei cittadini, soprattutto nel momento in cui chiediamo la modifica della legge sulla diffamazione per rispettare il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati ed il diritto dei giornalisti ad informare correttamente. Un diritto che in entrambi i casi non può essere usato come una clava per colpire persone indifese. Si chiama deontologia professionale ,per i giornalisti. E va sempre ricordato, anche al nostro Ordine Professionale e agli istituti della nostra professione».

Forse è giunto il momento, non più prorogabile, che l’Ordine dei Giornalisti e le altre istituzioni del mondo dell’informazione si diano appuntamento a Trapani per affrontare questi nodi della professione e per illuminare questa periferia del nostro Paese, dove il fango può diventare notizia.


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