50 mila chilometri di confini, di cui quasi l’80% di mare. Dentro questi confini vive il 7% della popolazione mondiale, che produce il 20% del reddito mondiale e consuma il 50% del welfare globale. Dentro questi confini vivono gli abitanti di 28 Paesi, che compongono una unione imperfetta di quello che viene chiamato “vecchio continente”.
Una Europa nervosa, impaurita, destinata ancora a ridursi quantitativamente in pochi anni, perché invecchiata , che non fa figli e che, in preda a una certa confusione mentale, tira su muri per difendersi dall’ondata di chi fugge da fame, povertà, guerra.
In questa situazione ha senso, come titolano sempre più spesso i giornali in questi ultimi tempi, “sospendere Schengen”? Se lo sono chiesto stamani al Campus Einaudi dell’Università di Torino, docenti, ricercatori, politici e circa 200 studenti, universitari e di scuole superiori. Innanzitutto si è cercato di fare un po’ di chiarezza sui termini della questione nell’incontro organizzato dal Dipartimento Culture, Politica e Società, diretto da Franca Roncarolo, docente di Comunicazione pubblica e politica.
Schengen é il Trattato del 1985 che sancisce la libera circolazione “interna” all’Unione Europea di persone e merci: con Schengen non è più necessario mostrare passaporti passando da uno all’altro dei Paesi Europei che hanno aderito al trattato; i voli in Europa sono voli “interni”; ha preso l’avvio il progetto Erasmus che ha permesso già ad alcuni milioni di giovani europei di integrare la propria formazione superiore nel continente; con Schengen é nata quella che i sociologi chiamano la “generazione Schengen”, giovani cioè che, a cavallo del 2000, incominciano a pensare al proprio futuro non necessariamente nel cortile di casa, che si confrontano con situazioni culturali ed economiche simili, ma diverse, che hanno in testa un “passaporto ” europeo.
Schengen é il pilastro normativo fondativo di un’identità europea, come l’euro é il collante dell’area economica continentale. Sospendere Schengen significa tornare indietro nel tempo, alle barriere doganali, alla limitazione della circolazione di persone e merci. Significa la sepoltura del progetto europeo, nato dopo la seconda guerra mondiale per evitare nel futuro le guerre, i massacri che avevano caratterizzato i secoli precedenti e, soprattutto, la prima parte del ‘900.
C’è ancora questo rischio? Certo, basta pensare a quello che capitò non più di una ventina di anni fa, sull’altra sponda dell’Adriatico, dove ci furono conflitti ferocissimi e massacri tra popolazioni che avevano convissuto pacificamente nella allora Jugoslavia.
C’entra qualcosa Schengen con la difesa dal terrorismo? C’entra qualcosa la presenza della portaerei De Gaulle nel Mediterraneo dopo l’attentato di Parigi del novembre scorso? I terroristi finora identificati erano tutti cittadini francesi o belgi, già da tempo “dentro” i confini europei. Ed erano terroristi organizzati, si chiede l’antropologo Roberto Beneduce, quelli che la scorsa estate facevano da palline di ping pong tra la stazione ferroviaria e gli scogli di Ventimiglia?
Difficile immaginare organizzazioni terroristiche così scalcagnate… Per difendere più efficacemente l’Europa dal terrorismo e dalla criminalità, anche economica, il Gruppo Spinelli propone per bocca di Mercedes Bresso, parlamentare a Strasburgo per il PD, 5 punti, che consentano una ancor maggiore integrazione tra i 28 Paesi:
1- una politica europea unica di asilo, superando il Trattato di Dublino, che si occupa di questa materia
2- una guardia di frontiera comune, non solo nazionale, ma integrata
3- una intelligence europea (il massacro del Bataclan ha dimostrato ciò che già si sapeva, che la cooperazione tra i diversi Servizi è lacunosa e imperfetta)
4- una Agenzia di Polizia Europea
5- un sistema giudiziario europeo, sempre più integrato e un Procuratore europeo che persegua reati commessi in più Paesi, per rendere più efficace la lotta al terrorismo e, soprattutto, per contrastare la criminalità economica e le mafie che prosperano sulle differenze dei sistemi giudiziari e sui confini interni che rallentano le indagini.
Per Bresso è una sciocchezza sospendere Schengen; semmai bisogna mettere in atto, come per le cinque proposte di contrasto al crimine, tutte le possibili iniziative politiche tendenti a una integrazione sempre maggiore, per meglio tutelare la sicurezza dei cittadini europei.
Per garantire meglio controlli e integrazione, spiega Umberto Morelli, docente di Relazioni internazionali, servono 20 miliardi l’anno. La Commissione Europea dispone di un bilancio complessivo di 140 miliardi l’anno, corrispondente all’1% del Pil continentale.
Troppo poco e per di più, nell’ultima programmazione di fondi 2014-2020, per la prima volta sono stati ridotti i fondi. Ulteriore dimostrazione della miopia strategica delle politiche di austerity. Con l’applicazione della carbon tax, tassa sull’inquinamento, si potrebbero reperire circa 35 miliardi l’anno, ma la proposta è da tempo ferma, immobile. Morelli ricorda come invece nel 1935, sei anni dopo l’inizio della recessione economica, Roosvelt avesse quadruplicato il bilancio federale, per contrastarne gli effetti.
E come si fa a chiedere alla Grecia, che fatica a pagare le pensioni, di farsi carico da sola dei controlli alle frontiere, pena l’esclusione da Schengen? Semmai, sottolinea Francesco Costamagna, giurista, la questione si risolve modificando il Trattato di Dublino, non Schengen, allineandosi sostanzialmente alla proposta del Gruppo Spinelli di una politica di asilo unica, europea.
Infine qualche piccolo dato, fornito da Maurizio Veglio, avvocato che si occupa professionalmente dei rifugiati, per inquadrare le dimensioni di un problema su cui scientemente mestatori xenofobi e mass media confusi non consentono valutazioni razionali, ma giocano sulle emozioni e sulle paure di cittadini sull’orlo di una crisi di nervi.
Nel 2015 sono transitati dalla Turchia verso la Germania e il Nord Europa 851 mila persone, in prevalenza siriane, richiedenti asilo, richiesta peraltro a cui, in base al diritto internazionale, è doveroso dare risposta.
153 mila in Italia, alcune migliaia in meno del 2014, di cui quasi la metà non identificati e, presumibilmente, “spariti” in altri Paesi europei, mentre in Turchia, che ha chiesto per questo 3 miliardi all’Unione Europea, vivono circa 2 milioni e mezzo di siriani in condizioni tragiche. Il Libano, che ha 4 milioni di abitanti, accoglie circa 1 milione di profughi siriani.
I termini più usati nelle varie cronache riguardanti l’immigrazione in Europa inerenti alle politiche di accoglienza sono “hot spot”, “hub” e altre tecnicalità in burocratese. Ma l’accampamento dei profughi a Calais, che è stato mostrato poche settimane fa dalle telecamere di Sky, non sarebbe più corretto chiamarlo “campo di concentramento”?
Al seminario i ragazzi erano attenti, concentrati, perplessi. Contemporaneamente il Consiglio Europeo era riunito a Bruxelles con la stessa questione all’ordine del giorno.
“Dum Romae consulitur, Saguntum peritur“. È proprio vero che la storia si ripete, ma quasi sempre in peggio.