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Sanremo, usato sicurissimo poche eccezioni

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Eppure, diversi anni fa, quando entrarono in scena le pay tv e si pose il problema di salvaguardare dal criptaggio talune trasmissioni ad alto consumo popolare, si inserì anche il Festival di Sanremo. Non solo calcio, insomma. E non per caso. La manifestazione storica di febbraio è un po’ la classicissima, il Giro d’Italia, un Mondiale. Rappresenta, infatti, il nocciolo duro della cultura di massa italiana. Più di mille analisi socio-antropologiche o di improbabili filosofemi sul Belpaese, le (ben) cinque serate canore –con il vero e proprio sistema crossmediale che si scatena attorno, sui social– ci raccontano tante verità sull’Italia. L’essere una Nazione piuttosto conservatrice, ma capace di inglobare nel milieu le unioni civili e pure le adozioni (udite senatori timorati, udite), prudente nell’innovazione ma persino attenta alle voci meno scontate, in grado di celebrare due volte Lucio Dalla. Grazie alla vittoria nel curioso match delle cover e nella gara tra i big degli “Stadio”, bravi loro ed evocativi dell’indimenticabile (non proprio omologato) maestro che accompagnavano nei concerti. Insomma, l’usato sicurissimo.

Insomma, grazie alla statica abilità di Carlo Conti, un riuscito corpo a corpo con gli strati profondi della società, quella della porta accanto, e che fu un po’ democristiana e un po’ comunista. Progressista con giudizio, capace di sussumere –miscelandoli- vecchio e nuovo: melodie e rapper. Senza problemi, in un’unica “narrazione”. Dopo un doveroso lavacro delle punte eccentriche o eversive. In piedi per il remake dei Pooh, una sorta di memoria tascabile viaggiante, ma seduti per i bravissimi ma normalizzati di “Elio e le Storie tese”. Lasciamo ai musicologi qualche riflessione seria, come ne faceva sul serio il compianto Gianni Borgna. Certamente, però, nulla fa gridare al capolavoro e ci diranno le radio nonché il Web chi avrà vinto nelle settimane che seguiranno. Spesso, infatti, classifiche ed applausi dell’Ariston sono contraddetti dalla fruizione reale. Ci ricordiamo di Zucchero, o di Bobby Solo? Vedremo Noemi e Rocco Hunt, o Francesca Michielin…. Tra l’altro, nel 50% di share si trovano giovanissimi in numero cospicuo. Piccolo effetto Sanders? Si fa per dire, ovviamente.

Lo spettacolo nello spettacolo non ha aggiunto granché. Poco di nuovo dai comici, inguardabili comprimaria e comprimario di Conti (ma perché?), suggestiva ancorché troppo simile ai talent la scenografia. Imbarazzante il corteggiamento verso i vertici della Rai, Maggioni e Campo Dall’Orto, naturalmente contentissimi. Veniamo alle eccezioni. Intanto un maturo Frassica, con la sua poesia per il piccolo Aylan. Inoltre, uno struggente Ezio Bosso, pianista di prima qualità toccato da una sofferenza fisica che non perdona. E, infine, la star dell’edizione 2016: Virginia Raffaele. Irresistibile e intelligente imitatrice (quando uno show con Crozza?), nel duetto con un magico Bolle ha svelato doti che ci restituiscono qualche speranza sul futuro del varietà italiano. E’ nata una stella, senza dubbio, che rinverdisce una tradizione notevole. Questa volta, oltre il politicamente corretto.

Che aggiungere? Sanremo è una zona franca, capace di smorzare le polemiche, un momento buonista che suscita sentimenti, a cominciare dalla nostalgia. Sempre canaglia. Tuttavia, a mente fredda, viene voglia di rivedere in sequenza -come fosse una serie lunga- l’intera storia delle varie edizioni. Convinti, purtroppo, di assistere –nel caso- ad una parabola pericolosamente discendente. Verso un’Italia minore.


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