Matteo Renzi non è né deputato né senatore, ma si è impadronito dei più complicati meccanismi parlamentari. Sia alla Camera sia, soprattutto, al Senato, è riuscito ad evitare finora trappole e imboscate di avversari ed alleati in fermento.
Il presidente del Consiglio e segretario del Pd in due anni ha battuto ogni primato. Si è appoggiato e conta di appoggiarsi a ben quattro diverse maggioranze parlamentari per salvaguardare la vita del suo governo: 1) la coalizione politica tra Pd e centristi di varie estrazioni (Nuovo centrodestra di Alfano, ex montiani, Udc) che ha votato la fiducia al governo; 2) l’intesa con Forza Italia di Silvio Berlusconi che ha votato per un anno la legge elettorale e la riforma costituzionale; 3) la convergenza con Denis Verdini e Flavio Tosi a gennaio per votare al Senato il disegno di legge Boschi sulle riforme e respingere la sfiducia contro l’esecutivo; 4) l’accordo con il M5S prima per eleggere presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poi i giudici costituzionali e i componenti del Csm e ora, forse, votare assieme ad essi a Palazzo Madama il disegno di legge elaborato da Monica Cirinnà, Pd, sulle unioni civili.
Adesso lo scontro è proprio sulle unioni civili, può succedere di tutto. La riforma all’esame del Senato, che ha superato il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità, costituisce uno scoglio pericoloso per Matteo Renzi. Circa 30 senatori democratici di matrice cattolica più altrettanti centristi dell’Ncd-Udc minacciano di non votare la riforma per riconoscere ai conviventi di fatto, omosessuali ed eterosessuali, diritti analoghi a chi ha contratto un matrimonio.
Il governo, senza una mediazione in corso d’opera per superare i contrasti, rischia una brutta caduta, soprattutto negli insidiosi voti segreti su questioni etiche. Uno dei punti più controversi è il cosiddetto “stepchild adoption”, una espressione inglese per indicare la possibilità di adottare il figlio biologico del compagno. Si parla dell’ipotesi di “stralciare” la questione dalla riforma. Renzi lascia libertà di coscienza e di voto ai senatori della coalizione e torna a pensare alle “maggioranze variabili” per evitare brutte sorprese all’esecutivo.
Al Senato l’ex sindaco di Firenze ha sempre avuto una maggioranza risicata, ma i margini sono divenuti più a rischio dalla fine dell’anno, da quando alcuni senatori della sinistra del partito se ne sono andati sbattendo la porta. A gennaio il “miracolo” l’hanno fatto Verdini e Tosi. I 18 senatori verdiniani di Ala (Alleanza liberalpopolare autonomie) e le 3 senatrici tosiane di Fare! hanno salvato il governo, approvando prima la riforma costituzionale e poi bocciando la sfiducia all’esecutivo sul caso della Banca Etruria. Renzi ha ottenuto 180 e 178 voti a favore, ben di più della soglia minima di 161 (la maggioranza assoluta) prevista in questi due casi. Il soccorso alla maggioranza politica in difficoltà ha funzionato. Verdini e Tosi hanno commentato: «Siamo determinanti».
Verdini e Tosi sono quasi due gemelli politici. Tutti e due fino all’anno scorso erano all’opposizione all’interno del centrodestra (il primo ha lasciato Forza Italia di Silvio Berlusconi, il secondo la Lega Nord di Matteo Salvini), entrambi apprezzano Renzi (uno “si affianca” al nuovo Pd, l’altro “dialoga”) e puntano a creare delle forze centriste. Tutti e due attaccano la deriva “distruttiva” di estrema destra lepenista decisa da Salvini e subita da Berlusconi, che frutterà molti voti ma causerà “la sconfitta del centrodestra”, entrambi negano il loro ingresso nella maggioranza politica perché hanno votato “contro la sfiducia” al governo ma “non la fiducia”.
Avanti con cautela. In questo modo per ora sono disinnescate le accuse delle minoranze democratiche al presidente del Consiglio. Gianni Cuperlo, Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani a più riprese hanno bocciato ogni ipotesi di dar vita al Partito della nazione, un’ipotesi indicata da Renzi fin dal suo arrivo a Palazzo Chigi due anni fa, per “ampliare” i consensi del Pd verso gli elettori delusi del centrodestra e quelli del M5S.
Verdini e Tosi si sono mostrati interessati al Partito della nazione e la mossa ha provocato l’alzata di scudi delle minoranze democratiche, consensi e qualche imbarazzo tra i renziani. Stefano Fassina, Pippo Civati, Sergio Cofferati in tempi diversi hanno lascito il Pd contestando “le posizioni di destra” nelle riforme economiche e sociali e “l’impostazione plebiscitaria” nelle innovazioni istituzionali.
Riconoscimento dei diritti delle coppie conviventi e non equiparazione al matrimonio. Il presidente del Consiglio adesso al Senato vuole portare a casa la legge sulle unioni civili e può anche cambiare gioco. Indicando la necessità di realizzare la riforma che aspetta invano da trent’anni, può sollecitare i voti dei Cinquestelle e di Sinistra italiana (il nuovo gruppo formato da Sel e dai dissidenti che hanno abbandonato il Pd). Renzi in due anni di governo ha utilizzato le “maggioranze variabili” per andare avanti.
Del resto il centrosinistra nelle elezioni politiche del 2013 conquistò la maggioranza dei seggi alla Camera ma non al Senato, così nacque il governo di “larghe intese” guidato da Enrico Letta per realizzare le riforme e salvare la legislatura. Durò poco e dal febbraio 2014 c’è, navigando tra mille difficoltà, il giovane “rottamtore” fiorentino a Palazzo Chigi.