È un tunnel buio e lungo quello nel quale si trova da oltre un anno e mezzo Paolo Borrometi, il coraggioso collega che ha portato allo scoperto i segreti dei clan a Scicli. «Stai attento» fu la prima delle minacce, incisa sulla fiancata della sua auto, poi seguirono altre intimidazioni e anche un aggressione fisica che ha comportato una lunga rieducazione per recuperare l’utilizzo del braccio destro. Sotto scorta da oltre un anno e mezzo, Borrometi dal territorio ragusano è dovuto alla fine andarsene, perché la pressione nei suoi confronti e della sua famiglia era salita alle stelle.
Trasferitosi a Roma Borrometi ha continuato a dirigere il blog “La spia” e ha avviato una collaborazione giornalistica con l’agenzia AGI: nonostante il ricordo del male subito sia ancora un fantasma inquietante che si presenta a chiedere il conto quando meno lo si aspetta, il giornalista siciliano continua a raccontare con tenacia e documentazione quello che accade in quel lembo di terra, divenuto famoso per le riprese della fiction televisiva dedicata al commissario Montalbano, il fortunato personaggio partorito dal genio di Andrea Camilleri.
Le inchieste per assicurare alla giustizia chi ha minacciato di morte e diffamato Borrometi utilizzando i moderni social fortunatamente sono andate avanti e qualche giorno fa la notizia che rappresenta una prima luce fioca in fondo a quel maledetto tunnel.
Su disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, gli uomini della squadra mobile di Ragusa e del commissariato di Vittoria hanno identificato e arrestato Gionbattista Ventura, pluripregiudicato e fratello di Filippo Ventura che, nella relazione dello scorso anno, la Procura nazionale antimafia identificava come il boss di Vittoria.
Nel lungo curriculum criminale di Gionbattista Ventura troviamo condanne per omicidio, associazione per delinquere, porto illegale di armi, rapina e traffico di droga. Tra le minacce riportate dalle agenzie che il Ventura aveva indirizzato via social a Borrometi troviamo parole raggelanti, rivelatrici di un istinto criminale capace di trasformare la minaccia in violenza: «Ti scipperò la testa anche all’interno del Commissariato di Vittoria. Da ora in poi sarò il tuo incubo».
Ventura si era reso irreperibile, dopo aver violato ripetutamente l’obbligo di dimora disposto dalla questura di Ragusa: una misura di prevenzione ritenuta necessaria vista la caratura del soggetto – ritenuto dalla polizia un “pericoloso criminale” – ma che non gli aveva impedito di continuare a intimidire e diffamare via internet il giornalista che, in risposta, aveva prontamente denunciato lui e altri autori delle minacce. Oltre agli otto mesi di reclusione da scontare come residuo di pena relativo ad una condanna pregressa, i magistrati di sorveglianza hanno disposto la misura di sicurezza detentiva all’interno di una colonia agricola per un periodo di tre anni.
L’arresto di Ventura, purtroppo, non mette fine ai pericoli per Borrometi, che si è macchiato di una colpa imperdonabile per i clan: l’avere fatto fino in fondo il proprio dovere di giornalista, in una provincia della Sicilia, considerata per troppi decenni “babba”, cioè stupida perché priva di uomini d’onore capaci di assicurare il fiorire di attività mafiose. Uno stereotipo che Borrometi con i suoi articoli e le sue inchieste ha smontato, pezzo dopo pezzo, entrando in rotta di collisione con le cosche criminali.
Anche questa vicenda di coraggio e denuncia conferma che alle mafie quello che da più fastidio è proprio che si parli di loro, di quello che fanno e delle relazioni che hanno. Borrometi ha documentato la presenza delle cosche in territori ritenuti immuni da sempre. Da Scicli a Vittoria, ha acceso i riflettori su questo splendido angolo di Sicilia dove, nel silenzio riservato da testate compiacenti e dalla disattenzione dei più, ai pochi coraggiosi che alzano la testa si rivolgono minacce che, a volte, prendono realtà.
A far scattare la reazione più violenta – l’aggressione fisica subita ad opera di due uomini incappucciati in aperta campagna con calci, pugni e la rottura del braccio destro – fu, forse, l’articolo che Borrometi scrisse nei primi giorni di aprile 2014 per invitare gli abitanti di Vittoria a rompere il silenzio venutosi a creare attorno all’omicidio di Ivano Inglese, un giovane incensurato impiegato alle poste e ucciso con sei colpi d’arma da fuoco alle porte di Vittoria.
In quell’articolo, intitolato in modo non equivoco “Vittoriesi, dimostrate di essere uomini e donne libere: parlate! L’omertà è mafia..”, Borrometi, oltre a porre inquietanti interrogativi sulla fine di un giovane mai finito nei guai con la giustizia, ricordava ai vittoriesi l’equazione tra omertà e mafia, lanciando un appello perché chi avesse visto o sapesse qualcosa di quello strano omicidio si presentasse alle forze dell’ordine.
Troppo, davvero troppo per uomini da sempre abituati ad incutere paura e rispetto solo con la loro presenza. Troppo, davvero troppo per uomini che hanno fatto della violenza la cifra della loro vita: l’offesa andava subito vendicata. Ecco spiegata così l’aggressione fisica che Paolo ha dovuto subire a distanza di qualche giorno, sempre nell’aprile 2014, che poi è continuata fino ai giorni nostri con le offese via social e altre minacce.
Da quella primavera di violenza e paura, Borrometi ha ricevuto consensi e solidarietà.
E meno di un mese fa è arrivato un importante riconoscimento dal presidente Sergio Mattarella: l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, ricevuta insieme ad un’altra valente collega, Federica Angeli che sulle colonne di Repubblica ha raccontato in diretta l’ascesa dei clan lungo il litorale di Ostia e che per questo è stata minacciata dagli stessi criminali.
Un riconoscimento importante, ma che non sposta il senso del valore già straordinario di un collega che continua a fare fino in fondo ogni giorno il proprio lavoro, senza montarsi la testa o recitare il copione stantio del personaggio sotto scorta.