C’è una notizia che i giornali in edicola non hanno per via del fuso orario. In Iowa Donald Trump ha perso il primo match per la nomination, superato dal crociato Cruz. Hilary Clinton non ha vinto contro Bernie Sanders. Sono diversissimi Clinton e Trump. La prima è la politica avvertita che gli americani del bel mondo, dei bei giornali – in testa New York Times- dei buoni affari e della diplomazia elegante vorrebbero vedere alla Casa Bianca. Il secondo è un miliardario che si è arricchito facendo troppi debiti perché lo facessero fallire, che gridava in televisione You’re fired a chi non grattava venti dollari vendendo acqua del rubinetto, che ora vieta gli Stati Uniti ai musulmani , e diserta un confronto televisivo in odio alla giornalista che lo conduce -”le usciva sangue dagli occhi” -ha detto di Megyn Kelly- poi, con riferimento al ciclo mestruale, ha aggiunto “anzi le usciva sangue ovunque”.
Trump e Clinton avrebbero dovuto vincere facile, il primo trascinato dall’onda dei sondaggi e dal terrore dei benpensanti, la seconda confrontata a un nonno del Vermont che osa dichiararsi socialista, in un paese in cui dirsi tale è peggio che ammettere di essere anti americano. Invece i Caucus, le assemblee elettorali dell’Iowa, non hanno premiato Donald e neppure Hilary. Ora il primo promette di rifarsi in New Hampshire, la seconda attende il primo super martedì per mostrare di avere l’appoggio delle donne e degli afro americani; ma nessuno dei due può dormire tranquillo. La logica del sistema e quella dell’anti sistema, poi del sistema che usa dosi omeopatiche di anti sistema per sopravvivere alla propria crisi, non funzionano più. L’America cerca strade nuove. Ha un presidente in carica che ha fatto più dei suoi tre predecessori (Bush junior, Bill Clinton e Bush senior) messi insieme, ma che non ha ridotto la forbice della disuguaglianza tra ricchi e poveri, non ha ridato abbastanza fiducia al ceto medio, né ha convinto l’America profonda che solo con il dialogo, e cercando un equilibrio multipolare, si possano difendere nel mondo gli interessi della nazione.
Tutto è possibile in casa repubblicana dopo che la dinastia dei Bush è stata spazzata via. E tutto può accadere tra i democratici, anche che la dinastia dei Clinton si faccia battere da nonno Sanders, pare appoggiato da molti millennials, giovani nati a cavallo del 2000, che non credono più di poter lavorare e spendere come i genitori, che sperimentano strade nuove, immaginano consumi collettivi, chiedono una più equa distribuzione della ricchezza. That is! Forse Obama si schiererà più chiaramente a fianco di Hilary, quando e se si sarà spenta la cometa Trump, l’apparato ritroverà fiducia nella sua donna, i politologi ci diranno che nulla è davvero cambiato, che le elezioni si vincono al centro perché le proposte radicali (e sociali) spaventano il ceto medio più dei populismi. Ma non ne sono sicuro. Se leggo, persino in Italia, l’imbarazzo dei giornali di fronte alle quotidiane sparate del Renzi contro la “perversione democratica” dell’Europa “Renzi attacca ancora”, il Corriere alza le mani. “Noi salviamo vite, voi pensate ai conti”, Repubblica prova a sostenerlo ma subito dopo, nel catenaccio, parla di una “Lite sui migranti” con Renzi che prevede il peggio: “aprite pure la procedura d’infrazione”. La Stampa parla di “maggioranza a rischio sulle unioni civili”.
In America come in Italia, la politique politicienne col bel seguito di imprenditori questuanti, banchieri sofferenti, intellettuali e giornalisti plaudenti, si rivela ogni giorno più debole, più insicura, imprigionata in uno schema che il mondo in bilico tra rivoluzione e reazione più non comprende. Sarebbe il momento per chi fa politica di dire chiaramente ciò che vuole. Cosa pensa Hilary Clinton del salario minimo a 15 dollari? Come vuole tagliare gli artigli dei ricchi che diventano ogni giorno più ricchi? Cosa, per frenare la bolla finanziaria che incuba nuove crisi e forse prepara un’altra recessione. E Renzi ci dirà se, quando e come intenda mandare soldati italiani in Libia? La smetterà di usare ogni giorno parole sprezzanti con Junker e affabili con Angela (Merkel) per chiarire a noi italiani, ai greci, agli spagnoli in cosa egli voglia cambiare l’Europa? É Renzi per un Parlamento europeo che elegga la commissione? É disposto il governo italiano a delegare almeno la politica fiscale e parte delle scelte internazionali a un’Europa davvero democratica e non più burocratica?