Sempre più testate si pongono il problema della gestione dei commenti. Mentre il Guardian decide di limitarli, muove i primi passi un progetto per la realizzazione di strumenti open source per la promozione di community costruttive
I commenti relativi ad articoli su immigrazione e islam o che hanno per protagonisti determinati gruppi razziali o etnici attraggono un inaccettabile livello di commenti che contengono contenuti d’odio. Con questa motivazione il Guardian ha deciso pochi giorni fa di limitare la possibilità di commentare gli articoli su questi temi: «La schiacciante maggioranza di questi commenti tende al razzismo, all’abuso nei confronti dei soggetti vulnerabili o verso l’autore del post o al trolling. Le conversazioni che ne risultano portano pochissimo valore aggiunto al dibattito, ma sono causa preoccupazione sia tra i lettori che tra i giornalisti», scrive Mary Hamilton, executive editor for audience della testata britannica.
«Vogliamo essere padroni di casa responsabili», sottolinea Hamilton. L’obiettivo non è quello di mettere a tacere tutti i commentatori per evitare la pubblicazione di contenuti scomodi, ma quello di consentirne una migliore moderazione: «È stato deciso che i commenti sui pezzi riguardanti quei tre argomenti saranno chiusi, a meno che i moderatori non siano sicuri di avere la capacità di sostenere la conversazione e a meno che non credano che sia possibile costruire un dibattito positivo», spiega la giornalista. In pratica la possibilità di commentare sarà limitata se e quando non vi sarà un numero sufficiente di moderatori per gestire la mole di post generati dai temi in questione. Una politica che non sarà applicata solo nel Regno Unito, ma anche nelle edizioni statunitensi e australiane della testata.
«Vogliamo ospitare conversazioni che contengano un dibattito costruttivo, che consentano al pubblico di aiutarci a sviluppare il nostro giornalismo attraverso le proprie competenze, conoscenze, pensieri e opinioni e che permettano di usare il nostro sito come una piattaforma per la creazione di connessioni con il mondo», puntalizza Mary Hamilton. I casi di hate speech, i troll e la propaganda, oltre a non portare alcun valore aggiunto alla conversazione e a causare malumore, «inquinano discussioni spesso stimolanti» e riflettono una tendenza dell’opinione pubblica e del linguaggio comune che il Guardian non vuole supportare.
Che il noto quotidiano sia arrivato a questa decisione, del resto, non sorprende più di tanto: mentre in Italia sono ancora poche le testate ad avere politiche interne ben delineate per la gestione dei commenti e il contrasto ai discorsi d’odio, il giornalismo internazionale ha iniziato da tempo ad attivarsi. È il caso di Reuters, della CNN e del Chicago Sun-Times che hanno deciso di non consentire più i commenti o di limitarli severamente, così come il New York Times controlla ogni post prima della pubblicazione. Un processo che, di pari passo con la crescita dei commenti, è iniziato nel 2012 e del quale Wired ripercorre i passi principali qui.