BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Mi dispiace, Giulio, ma sei morto invano

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Regeni è stato assassinato. Da chi? Le impronte non le abbiamo, ma non è difficile vedere come quello sia un delitto politico, quale ritorsione per il suo impegno e la sua vicinanza ai sindacati indipendenti dei taxisti e degli ambulanti del Cairo e per la sua denuncia delle loro condizioni. Nel momento del dolore, ora, ci scopriamo tutti dalla sua parte; e come potrebbe essere altrimenti? Però, fino al giorno prima, eravamo dalla parte dei suoi carnefici.

Regeni è morto perché stava sul versante di chi dissente dalle politiche e dalla pratiche del regime egiziano. Noi, il nostro Paese, sta dalla parte di quello stesso regime e del suo capo, Abd al-Fattah al-Sisi. Con esso facciamo affari, di egli diciamo bene. Se critichiamo quei rapporti prima, siamo “gufi” che vogliono il male dell’Italia. Se critichiamo questi rapporti dopo, diventiamo “avvoltoi” che speculano sul cadavere d’un ragazzo ucciso. Dovremmo tacere? Dovremmo non dire che la speculazione è quella di chi tratta miliardi con l’Egitto del Generale, di quanti vendono armi e comprano petrolio dall’Arabia Saudita che manda a morte i non allineati, di quelli che chiudono gli occhi sul fatto che in Iran le gru siano usate per impiccare i dissidenti, purché quel governo stacchi assegni per comprarne altre? Dovremmo restare in silenzio?

Forse sì. Mi dispiace, Giulio, ma sei morto invano. Se fossi stato rapito, come quelle altre due, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, avrebbero pure detto che te l’eri cercata, e che magari non era tanto giusto spendere risorse per provare a liberarti. E poi, insomma, adesso ci costringi a dire che, sì, in fondo in fondo, sotto le piramidi non è che ci sia proprio la democrazia, però, ragazzi, un po’ di pragmatismo: non si dice “pecunia non olet”?

Se tu fossi rimasto a casa, ti fossi accontentato del mondo così com’è, d’un lavoro qualunque, senza cercare di capire, di vedere, di cambiare, saresti ancora vivo e noi tutti più tranquilli. Chi se ne importa se ammazzano qualche egiziano, qualche arabo o qualche iraniano, qualche cinese e qualche americano, qualche russo, qualche negro, frocio o comunista in un qualche angolo del mondo? Proprio tu dovevi esserci, proprio lì dovevi andare, obbligando i nostri tg a farci le aperture? Non potevi startene al tuo posto?

Se ritenete che sia troppo cinico, pensate a come ci comportiamo. In questi giorni, il presidente della Repubblica è negli Stati Uniti. Dirà qualcosa sulla pena di morte? Non credo. Eppure, alla prima occasione in cui capiterà a un nostro connazionale di dover fare i conti con la minaccia dell’ultimo miglio, fioriranno appelli, fiaccolate, interessamenti istituzionali, mobilitazioni, sollecitazioni, auspici, e tutta l’infinita serie di rituali che conosciamo.

La pena di morte negli Usa c’è, all’anima dei diritti civili che cantiamo universali e di quel parci «un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio» che ci andiamo ripetendo dai tempi di Beccaria; perché, ad esempio, non poniamo mai la questione sul tavolo, allo stesso modo in cui non poniamo le questioni del rispetto degli uomini e delle donne nelle tante parti del globo in cui facciamo affari? No, eh? E chi è dunque che “lucra” sulle tragedie?


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