Mentre tutti gli occhi erano puntati sul Senato, intento ad approvare una pessima (in quanto profondamente discriminatoria) regolamentazione delle unioni civili, la Camera licenziava un deludente testo sul conflitto di interessi.
Il tema è sempre risultato particolarmente ostico per la politica italiana, che – come le cronache quotidiane dimostrano – pullula di conflitti di interessi. Premier e ministri proprietari o azionisti di aziende a favore delle quali il governo assume provvedimenti, ex ministri e sottosegretari assunti da aziende con le quali hanno intrattenuto rapporti durante il loro mandato di governo, agevolazioni per parenti e amici, amanti, conoscenti e finanziatori. Il tutto perché, nel Paese che del conflitto di interessi ha sostanzialmente fatto una forma di governo, è stato proprio l’Esecutivo presieduto da chi aveva gli interessi privati più ingombranti a far approvare l’unica disciplina in materia (almeno per i politici). E, naturalmente, non c’era da aspettarsi che questa fosse davvero in grado di risolvere la questione. Come constatò subito il Consiglio d’Europa, nel cui ambito opera la Commissione per la democrazia attraverso il diritto (detta anche Commissione di Venezia), la quale, in un parere sulla legge Frattini, concluse per la totale inadeguatezza del sistema ivi previsto, invitando le autorità italiane a «continuare a studiare la questione, al fine di trovare una soluzione appropriata», considerato che «il fatto di dedicarsi alla politica sia una libera scelta di ciascun individuo. Comporta certe prerogative e certi doveri. Una carica governativa determina un certo numero di incompatibilità e di limiti. Purché siano ragionevoli, chiari, prevedibili e non compromettano la possibilità stessa di accesso ad una carica pubblica, ogni individuo è libero di decidere se accettarli a meno».
Ecco dopo undici anni (con maggioranze di centrosinistra, centrodestra e “larghe intese”) siamo ancora a discutere di come introdurre una regolamentazione efficace della materia e per come stanno andando le cose il rischio di perdere ancora una volta un’occasione è forte.
Il testo approvato, infatti, recepisce l’impostazione, contenuta praticamente in tutte le proposte presentate, di prevenzione dei conflitti di interessi perché soltanto impedendo che questi si realizzino si assicura che il titolare della carica pubblica possa agire davvero senza avere di mira i propri interessi personali e che quindi permanga la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Quindi, correttamente il testo prevede ipotesi di incompatibilità con altre cariche, uffici o professioni (nell’esercizio delle quali potrebbe dover perseguire interessi contrastanti con quelli che deve perseguire in virtù della carica pubblica) e poi obblighi di astensione e uno strumento di separazione degli interessi privati da quelli pubblici (nella forma dell’amministrazione fiduciaria). Ma proprio su quest’ultimo punto mostra la sua principale debolezza. Infatti, la separazione degli interessi privati da quelli pubblici è normalmente prevista, nelle legislazioni straniere, a partire da quella statunitense, e salva l’ipotesi di vendita, con il blind trust, contenuto anche in alcune delle proposte presentate (da quella Bressa a quella Civati) e sull’opportunità della cui introduzione era intervenuto alcuni mesi fa lo stesso Presidente dell’Antitrust Pitruzzella. La caratteristica di questo strumento è quella di rendere progressivamente (e comunque entro un termine breve) non conoscibile al titolare della carica pubblica il proprio patrimonio; pertanto quest’ultimo è oggetto di disinvestimenti e di successivi nuovi investimenti che il titolare ignora (ciò essendo garantito da rigide norme sulla indipendenza del trustee). Soltanto non sapendo quali sono i propri interessi, infatti, l’uomo pubblico può agire libero da condizionamenti senza che nessuno possa neppure sospettare che ciò non sia avvenuto. Nulla di tutto ciò si realizza, invece, con la gestione fiduciaria di cui al testo approvato, che consentirebbe al titolare della carica pubblica di continuare a conoscere i suoi interessi (il fiduciario, infatti, può ma non deve vendere e anche rispetto alle sue caratteristiche di indipendenza il tetso non pare sufficientemente preciso). A tutto ciò deve aggiungersi che il ricorso alla gestione fiduciaria riguarderebbe, in ogni caso, soltanto interessi concentrati in un particolare settore oltre che di particolare entità. Talvolta, invece, l’impressione di avere agito per il proprio personale interesse può conseguire anche a fronte di entità patrimoniali meno rilevanti o concentrate, ingenerando comunque una sfiducia nelle istituzioni che una normativa sul conflitto di interessi dovrebbe mirare a prevenire.
Se questo è l’aspetto di principale debolezza, tuttavia, non ne mancano altri, come ad esempio, la limitatezza dei soggetti interessati alla mancata previsione di una disciplina sufficientemente garantista o la scarna disciplina delle incompatibilità post carica, utili ad evitare che l’incarico pubblico (di governo, in particolare) sia un trampolino di lancio per una successiva carriera privata.
In conclusione, quindi, la disciplina che questo testo mirerebbe a introdurre risponde certamente meglio della legge Frattini alle esigenze di prevenzione del conflitto di interessi. Tuttavia, deve considerarsi che un miglioramento della normativa in materia non in grado di assicurare che il titolare della carica pubblica sia impedito dall’agire a tutela di interessi privati propri o dei prossimi congiunti (o pure soltanto a vantaggio anche di questi) non può essere considerata adeguata e rischia, anzi, di ingenerare l’idea che la questione sia stata finalmente risolta, quando, in realtà, non lo è stata.