Un dittatore che faceva comodo all’occidente – Il “Pinochet africano”, “l’uomo dell’Occidente”, “il nostro uomo in Africa”, “il guerriero del deserto”, sono alcuni degli appellativi ricorrenti per parlare della stessa persona. Ha governato il Chad per 8 anni, dal 1982 al 1990, ed è accusato di aver sterminato più di 40000 persone. Oggi ne è stata chiesta la condanna all’ergastolo senza attenuanti per crimini di guerra, tortura e crimini contro l’umanità. Ed è la prima volta nella storia del continente che uno stato africano – il Senegal – applica il principio di giurisdizione universale per giudicare i crimini commessi dall’ex-presidente di un altro stato africano: Hissène Habré.
Moltissimi sono stati gli anni e gli sforzi necessari a che questo processo avesse luogo; ancora di più sono le vittime e i quintali di documentazione cartacea e fotografica che compongono i dossier delle vittime e le prove dei crimini. Ma analoghe annosità e abbondanza di implicazioni si annidano nella storia di Hissène Habré, ovvero nella storia di un paese che dalla sua indipendenza dalla Francia nel 1960 non ha quasi conosciuto pace, e negli interessi di potenze come la Francia e gli Stati Uniti, nei giochi di equilibrio della Guerra Fredda e del continente africano davanti alla minaccia Gheddafi, sin dagli anni ’70.
Habré infatti arriva al potere nell’82 rovesciando il suo predecessore, Goukoni Oueddei, sostenuto e protetto da Gheddafi. La zona Nord del Chad è stata sottoposta all’ingerenza libica sin dagli anni ’60: sullo sfondo, la guerra civile ciadiana alimentata dalle profonde divisioni etniche, politiche, religiose, socioculturali ed economiche tra il Nord e il Sud del paese. Parzialmente desertico e arido il Nord, attraversato dalla fascia saheliana, scarsamente abitato, da sempre poco interessante per la Francia coloniale e lasciato privo di infrastrutture, con una popolazione prevalentemente musulmana e poco scolarizzata. Nel Sud invece c’è una maggioranza di cristiani e animisti, le terre sono più fertili, produttive e attraenti per gli interessi europei, si concentrano gli investimenti, la costruzione di infrastrutture, la scolarizzazione e la politica del paese, che dalla capitale N’Djamena non offre rappresentanza alle etnie settentrionali. Queste, negli anni post-indipendenza vedono una forte presenza del regime libico che ne occupa a più riprese i territori spalleggiando di volta in volta le formazioni militari che si oppongono alle forze governative di N’Djamena, in un susseguirsi di colpi militari e di richieste d’intervento che l’autorità centrale ciadiana rivolge ai francesi. Ma è nell’81, quando Oueddei esprime il suo consenso al progetto con cui Gheddafi vuole annettere il Ciad alla Libia, che intervengono gli interessi degli Stat Uniti per arginare il padrino del terrorismo internazionale, così come le preoccupazioni della Francia nei confronti di un progetto libico che rischia di mettere a repentaglio l’intera Africa francofona.
È in questo momento che Hissène Habré diventa il baluardo anti-Gheddafi e imprescindibile alleato contro Oueddei, considerato una pedina filorussa: gli Stati Uniti iniziano a fornire sostegno militare, finanziario e politico ad Habré e al suo progetto di rovesciare Oueddei, andato in porto nell’82. L’occupazione libica dei territori del Nord resta alternativamente, fino al 1987, una minaccia o un dato di fatto, ed è sempre in chiave anti-Gheddafi che gli USA continuano a foraggiare Habré non solo con denaro, armi, munizioni e informazioni di intelligence, ma anche col supporto della CIA che si occupa di formare il personale della polizia politica e le milizie anti-libiche, sia in Ciad che negli Stati Uniti. E questo continua ad avvenire anche dopo il 1983, con la creazione della DDS (Direzione della Documentazione e della Sicurezza), l’infame polizia politica rispondente direttamente al presidente Habré che in 8 anni farà più di 40000 vittime (per la maggior parte civili), con assassini politici e torture sistematiche. La DDS infatti più che in chiave di intelligence anti-libica agisce per stroncare qualsiasi forma di opposizione interna al partito unico, di cui era sospettato chiunque, in particolare i membri di etnie diverse da quelle del presidente-dittatore.
Testimoni, ex-membri della DDS e i documenti ritrovati dopo la caduta e la fuga in Senegal di Habré nel 1990, provano che tanto gli USA quanto la Francia (che intervenne due volte a sostegno di Habré per respingere le invasioni libiche nel Nord del Ciad, nel 1983 con l’operazione Manta e nell’86 con l’operazione Sparviero) erano al corrente degli eccidi compiuti dalla polizia politica; ma all’epoca – come ha ricordato l’ex capo della diplomazia francese Roland Dumas in un’intervista a Canal + del 2009 – l’idea di subordinare le priorità geopolitiche e l’impegno anti-Gheddafi a questioni interne al Ciad, non era plausibile. Dalle testimonianze di ex-funzionari della DDS ed ex-ufficiali statunitensi, raccolte dalla prima commissione d’inchiesta ciadiana e da Human Rights Watch, emerge anche che i finanziamenti americani si stimano in centinaia di milioni di dollari e che alcuni funzionari della DDS erano anche i referenti per il gruppo “mosaico”, la rete di intelligence dei 7 paesi (oltre al Chad, Israele, Togo, RCA, Zaire, Camerun e Costa d’Avorio) coalizzati nella lotta al terrorismo in Africa e Medio Oriente. Anche il Mosaico, con detenzioni ed estradizioni illegali verso il Chad di numerosi oppositori politici uccisi una volta rimpatriati, ha assicurato al sistema di Habré di estendere i suoi tentacoli anche fuori dai confini domestici.
UNA BATTAGLI DI 25 ANNI – Nel 1990 Habré viene rovesciato da Idriss Deby, già comandante in capo dell’esercito sotto il suo predecessore e attuale presidente del Ciad. Si spalancano le porte delle carceri, dei luoghi di tortura e di detenzione clandestina. Viene istituita una Commissione d’Inchiesta che con i pochi mezzi economici a disposizione riesce a scoprire le fosse comuni, ad ascoltare i superstiti delle torture, a fare una lista dei funzionari della DDS, alcuni dei quali ancora operanti nelle rinnovate forze di sicurezza, a risalire ai finanziamenti elargiti dagli USA e alla collaborazione fornita ad Habré in particolare da Stati Uniti, Francia, Zaire, Iraq ed Egitto per formare ed equipaggiare la DDS. Quella ciadiana è stata l’unica Commissione a svolgere un’inchiesta anche sul ruolo delle altre potenze nella vicenda che ha sconvolto il paese in quegli 8 anni. Allo stesso tempo le denunce e le ricerche in loco di organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch sono state fondamentali, anche per stilare gli elenchi dei funzionari DDS e dei tipi di tortura adoperati. La legislazione del Chad tuttavia, non armonizzata alle convenzioni internazionali, né allo Statuto di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale, non garantiva le competenze per giudicare l’ex dittatore. Ed ecco allora perché ci sono voluti 25 anni prima che Habré venisse sottoposto a giudizio.
Nel ’91 si costituisce l’Associazione delle vittime dei crimini e delle repressioni politiche (AVCRP) in Ciad, con l’obiettivo di far perseguire Habré che intanto si è rifugiato in Senegal, ma poco o nulla si muove. È la vicenda Pinochet tra il ‘98 e il ‘99 a costituire un punto di svolta: autorizzando l’estradizione in Spagna dell’ex dittatore cileno, la giustizia inglese negava l’immunità a un ex capo di Stato autore di crimini contro l’umanità. Questo (a prescindere dalla conclusione della vicenda di Pinochet, che rientrerà in Cile) sanciva che l’impunità per i crimini internazionali non era garantita, dando una speranza alle vittime e ancora più tenacia all’attività dello stesso uomo che in audizione alla Camera dei Lord aveva determinato l’esito della decisione britannica: Reed Brody, portavoce di Human Rights Watch e strenuo difensore dei diritti umani. Ma il cammino sarà ancora lungo e pazzesco.
Nel 2000 l’AVCRP e altre associazione per la difesa dei diritti umani ciadiane e senegalesi chiedono il sostegno di Human Rights Watch per intraprendere un’azione giuridica contro Habré in Senegal, ma il paese si dichiara incompetente perché i crimini non sono stati commessi sul suo territorio; la stessa cosa, con l’aiuto di Reed Brody, fanno alcuni cittadini belgo-ciadiani presso il Tribunale di prima istanza di Bruxelles in virtù della giurisdizione universale. Nel 2001 Brody accede ai vecchi locali della DDS: gli archivi abbandonati dalla polizia politica consegnano immediatamente i nomi di 1.208 persone uccise o decedute in detenzione e quelli di 12.321 vittime di tortura, violazioni e trattamenti inumani nelle stesse circostanze. E la sensazione è la stessa di quando pochi anni prima venivano alla luce gli scheletri interrati nelle fosse comuni trovate con dei semplici scavi a campione, e cioè che i numeri riscontrati corrispondessero solo a una piccola percentuale delle vittime. Nel 2002 iniziano in Ciad le indagini della magistratura belga che dopo 4 anni formulerà i capi di accusa contro Habré: crimini contro l’umanità, tortura e crimini di guerra. Nel frattempo le Nazioni Unite ammoniscono le autorità del Senegal, paese in cui la convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli inumani o degradanti è stata ratificata nell’86, con l’obbligo di perseguire gli autori dei crimini oppure di estradarli; la richiesta di estradizione infatti arriva dal Belgio nel 2005 insieme al mandato di cattura internazionale. La polizia di Dakar arresta Habré, ma ancora una volta la giustizia senegalese si dichiara incompetente rispetto alla richiesta di estradizione e interviene l’Unione Africana, che dopo mesi di consultazioni a livello continentale, nel 2006 chiede al Senegal di giudicare l’ex presidente-dittatore. Ma non si muove nulla, neanche nel 2008 quando Brody porta 14 vittime di tortura sotto Habré davanti al Procuratore della Repubblica Senegalese e l’attenzione mediatica inizia ad essere importante. Fino al 2012 si assiste a un attorcigliamento della vicenda con infiniti rimpalli; il dispositivo giudiziario del Senegal resta bloccato tra questioni di non retroattività della legge penale e i richiami della comunità internazionale affinché Dakar si doti di una legislazione per giudicare i crimini contro l’umanità commessi in passato e in territorio non senegalese; le Nazioni Unite, l’Unione Africana, la Corte Internazionale di Giustizia e l’UE, moltiplicano richiami e ingiunzioni perché nella stallo, il Senegal continua a violare le convenzioni internazionali. Intanto per 2 anni (dal 2008 al 2010) si tratta sul denaro che il Senegal chiede alla comunità internazionale per poter sostenere lo svolgimento di un’azione penale, mentre le istituzioni africane cercano il concerto per deliberare sugli organismi ad hoc da costituire perché un processo abbia luogo a Dakar.
Quando nel 2012 si conclude il mandato di Wade, in carica dal 2000, il nuovo presidente Macky Sall annuncia che il processo si terrà in Senegal e il parlamento adotta la legge che istituisce le Camere Africane Straordinarie, il tribunale speciale composto da giudici del continente e frutto dell’accordo tra il Senegal e l’Unione Africana, che già in passato aveva chiesto a Dakar di giudicare Habré a nome di tutta l’Africa. Sempre nel 2012 la Corte Internazionale di Giustizia aveva deliberato sulle violazioni del Senegal: Habré doveva essere processato oppure immediatamente estradato verso un paese competente per giudicarlo. Nel Febbraio 2013 le Camere sono operative e l’anziano dittatore entra in detenzione pochi mesi dopo. I capi d’accusa sono quelli di tortura, crimini di guerra e contro l’umanità e l’inchiesta è andata avanti tra Dakar e N’Djamena. Il 10 Febbraio scorso il procuratore delle Camere Straordinarie ha chiesto l’ergastolo per Hissène Habré e il verdetto è previsto per il 30 Maggio 2016.
LE PROSPETTIVE DI UN PROCESSO STORICO – Quello di Dakar è un processo storico perché è la prima volta che uno stato africano esercita un’azione penale contro un ex presidente di un altro stato. È storico perché le vittime di Habré non credevano che sarebbero mai riuscite a vederlo a processo. Ed è storico per la lotta contro l’impunità, perché si crea un precedente forte. Il processo peraltro interviene in un momento in cui le relazioni tra gli stati africani e la Corte Penale Internazionale raggiungono un livello di tensione importante. Dal 2005 infatti le critiche dell’UA denunciano la parzialità della CPI, dove sono incriminati solo ed esclusivamente africani: perché, ad esempio, non essendo né gli USA né il Sudan tra gli stati parte dello Statuto di Roma, la CPI ha potuto incriminare Al Bashir per il Darfur mentre è certo che i crimini statunitensi in Iraq non verranno perseguiti? Certo, più che il recesso dalla CPI, minacciato da alcuni stati dell’UA, è auspicabile un sistema equo e immune da influssi e interessi politici o di altro genere per dare giustizia a tutte le vittime di crimini internazionali, da chiunque vengano perpetrati. Ma intanto è fondamentale che il continente dimostri di avere i mezzi e la volontà di perseguire autonomamente i crimini dei suoi stessi figli.
C’è un ultimo aspetto da mettere in luce in merito al processo delle Camere Africane Straordinarie, e riguarda il diritto all’informazione. Negli anni passati, Amnesty International, HRW e altre organizzazioni avevano denunciato come l’informazione e la memoria storica in merito agli 8 anni di atrocità non fossero sufficientemente supportate. In passato il governo ciadiano ha, sì, istituito una giornata della memoria e organizzato delle aperture al pubblico degli ex-locali della DDS. Ma i dettagliati quanto atroci rapporti della Commissione d’inchiesta hanno avuto una diffusione infima presso la popolazione a causa dei costi d’acquisto elevati. Neanche i filmati e i documentari sulla scoperta delle fosse comuni hanno avuto una circolazione troppo estesa. Oggi invece ci sono 1,25 milioni di euro per il lavoro di sensibilizzazione: con questi soldi si vuole garantire la produzione e diffusione di materiali audio e video, la diffusione delle udienze con traduzione in tutte le lingue locali del Ciad, la redazione e l’aggiornamento continuo della documentazione relativa al processo e il trasporto dei giornalisti e rappresentanti della società civile ciadiana a Dakar per assistere e documentare il procedimento.
Certo la scelta di Habré di non parlare, di non proferire parola durante il processo è un’occasione persa per illuminare ulteriormente la realtà storica di quegli anni, per sentire la voce del diretto interessato anche rispetto a temi che in questo processo non rientrano direttamente, come il coinvolgimento delle potenze di cui si è detto sopra, o quello dell’attuale presidente Deby, anch’esso accusato di tortura ed esecuzioni extragiudiziali negli stessi anni. Ma per le vittime il passo che si sta compiendo è importante, nell’attesa di sapere se i crimini di un dittatore potranno essere puniti solo dalla loro memoria, oppure anche dalla giustizia. Aspettando il penultimo giorno di Maggio.