Uno “Stato di sicurezza” in mano all’esercito, che reprime ogni forma di dissenso. L’Egitto del generale Al Sisi non lascia spazio alle opposizioni: gli attivisti ci sono, ma spesso vengono arrestati e torturati. O scompaiono nel nulla, come è successo a più di 1700 persone solo nel 2015. E come è accaduto a Giulio Regeni prima che il suo corpo venisse trovato in un fosso nella periferia del Cairo. Ma tra i giovani egiziani, che per rendere omaggio al dottorando ucciso hanno portato i fiori davanti all’ambasciata italiana, resta vivo il ricordo delle sollevazioni di piazza. E la paura non ha spento la voce del dissenso.
Maria Gianniti,(nella foto), inviata del Giornale Radio Rai, segue le vicende del Paese dai tempi della primavera araba e delle proteste di piazza Tahrir nel gennaio 2011.
In che contesto politico è avvenuta la morte di Giulio?
Per l’Egitto è un momento particolare, che in realtà dura da un po’: nel 2013, dopo la deposizione di Morsi e dei Fratelli musulmani con quello che molti hanno definito un colpo di Stato, l’esercito ha ripreso in mano il Paese e lo governa in modo autoritario. Lo “Stato di sicurezza” che c’è ora, però, ha persino superato la repressione attuata da Mubarak.
A questo bisogna aggiungere il problema del terrorismo: la battaglia di al Sisi contro la fratellanza musulmana non ha fatto che accendere gli animi degli islamisti. E nel Sinai le cellule jihadiste sono più attive che mai. Di fronte a ciò, il governo ha scelto una linea di chiusura totale, tanto che dal 2013 le manifestazioni di piazza sono vietate per legge.
E il dottorando italiano è sparito proprio nell’anniversario delle proteste di piazza Tahrir.
Anche lo scorso il 25 gennaio è stato un giorno tragico: una donna di 32 anni, Shaima Al-Sabbagh, è stata uccisa dagli spari della polizia durante i tentativi degli attivisti di manifestare. Come mai Giulio sia scomparso proprio in quella data e chi dovesse incontrare lo scopriranno gli inquirenti. Quel che è certo è che in queste occasioni i servizi di sicurezza chiamati Mukhabarat sono presenti in tutti i luoghi sensibili della città. E ai servizi segreti Giulio era stato segnalato: stava preparando una tesi di dottorato sul ruolo dei sindacati, che sono “osservati speciali” del governo, e aveva partecipato ad una riunione. Oggi in Egitto la repressione delle voci critiche è durissima: esprimere il dissenso significa finire in carcere. O scomparire nel nulla.
A tutto questo i giovani reagiscono?
Dal 2011, anno della Primavera araba, ho incontrato tanti ragazzi che vivono in Egitto, anche stranieri come Giulio. Il Cairo è la più grande capitale del mondo arabo e attrae studenti da tutto il mondo. Il problema si pone quando decidono di essere voci critiche: oggi lì non c’è spazio per la libertà di espressione. Eppure una cosa è rimasta, dai giorni delle proteste: a piazza Tahrir i giovani hanno partecipato alla caduta di un regime. Hanno imparato cos’è il dissenso. E questo spirito, anche se la repressione è peggiore di allora, non credo che si spegnerà.
Dopo l’omicidio di Giulio ci saranno conseguenze per i rapporti tra Italia ed Egitto?
Qualcuno ipotizza che l’uccisione di Giulio avesse lo scopo di ammonire chi si interessa da vicino alla politica egiziana. Mi pare difficile, perché il ragazzo era italiano e noi siamo il secondo partner commerciale del Paese: le conseguenze per loro potrebbero essere gravi. Appena ha avuto la notizia, il ministro dello Sviluppo Federica Guidi, in missione al Cairo, ha sospeso immediatamente tutti gli incontri in programma. E non dimentichiamo che il più grande giacimento di gas del Mediterraneo, che si trova al largo delle coste egiziane, è stato scoperto dall’Eni.
In forza di questo l’Italia dovrebbe mantenere una posizione rigida e congelare i rapporti economici finché non verranno chiarite le circostanze della morte: l’inchiesta non è facile e troverà molti ostacoli.