Si continua a morire da giornalisti. Lo dimostrano i dati raccolti nel rapporto appena pubblicato dall’International Federation of Journalists. Durante gli ultimi 25 anni sono stati almeno 2.297 gli addetti all’informazione che hanno perso la vita. Nel 1990, quando l’IFJ ha inaugurato le ricerche, il bilancio dei giornalisti morti è stato di 40. Ma dal 2010 non è mai sceso sotto la soglia dei 100. E la situazione è critica non solo per i numeri. Su dieci omicidi, solo uno è sottoposto a un’inchiesta. Per le condanne, il tasso è inferiore. Quanto agli interventi delle comunità internazionale, pochi e non ancora sufficienti a garantire la tutela del diritto all’informazione e di chi, di quel diritto, è portavoce.
Ne abbiamo parlato con Anthony Bellanger, il segretario generale dell’IFJ. In precedenza al sindacato dei giornalisti francesi, Bellanger ha preso il posto della collega brasiliana Beth Costa, in carica dal 2011.
Quando nel 1990 la Federazione inizia a raccogliere le sue statistiche, il numero dei giornalisti morti era di 40. E dal 2010 non è mai sceso sotto la soglia dei 100. Nel 2015, anno della carneficina nella redazione di Charlie Hebdo, le vittime sono state 112. Come si spiega questo cambiamento nel tempo?
La Federazione, che rappresenta 600mila giornalisti in 140 paesi del mondo, è la sola organizzazione internazionale ad avere registrato un distacco di tale portata. Pubblichiamo rapporti tutti gli anni e non avremmo mai pensato di rilevare una simile disparità nelle cifre. Durante il primo decennio (1990-2000), essere giornalista significava trovarsi in una situazione compromessa. Non si colpiva un giornalista perché era giornalista. In compenso, con l’emergere delle guerre in Medio Oriente – in Iraq, durante gli anni Duemila, le cifre sono state notevoli (155 morti nel 2006 e 135 nel 2007) – numerosi colleghi hanno pagato un caro prezzo. Allo stesso tempo, notiamo che oggi spesso sono i giornalisti locali o nazionali a essere assassinati. Quelli che cercano di fare bene il proprio lavoro in paesi dove corruzione e imbrogli di ogni tipo forzano la legge. Purtroppo è più efficace uccidere un buon giornalista che fa domande perché, in questo modo, si mostra ai colleghi cosa potrebbero aspettarsi se, per caso, vorranno continuare a portare avanti il loro lavoro.
Solo un omicidio su dieci è soggetto a un’inchiesta. Per quanto riguarda le condanne, il tasso è più basso. A suo parere, come dovrebbero agire le organizzazioni nazionali e internazionali?
È una catastrofe. Solo un omicidio su dieci è soggetto a un’inchiesta. E il numero delle condanne è inferiore. Perché la situazione cambi, è necessario che le due risoluzioni dell’ONU sulla protezione dei giornalisti siano rispettate. I governi hanno il dovere di applicarle sui loro territori. Purtroppo, non è ancora questo il caso. Dal punto di vista delle organizzazioni nazionali e internazionali, dovrebbero lavorare insieme a IFJ, che ha ottenuto una reale rappresentatività nel mestiere. Abbiamo stabilito relazioni in tutto il mondo, con numerose organizzazioni regionali e nelle principali capitali. Il lavoro contro l’impunità è la campagna globale che costituisce il principale impegno di IFJ. Le organizzazioni dovrebbero muoversi verso la stessa direzione. Noi continuiamo a fare pressioni sull’ONU e sull’Unesco. E, allo stesso tempo, su tutte le ambasciate che accettano di avere uno scambio con IFJ. È stato il caso, a Bruxelles nel mese di novembre e dicembre, per il Messico e le Filippine. Bisogna continuare a muoversi in questa direzione.
Nei 25 anni presi in esame dall’IFJ, l’Iraq è stato il paese con il maggior numero di omicidi. Il numero ammonta a 309. Seguono le Filippine, con 146 addetti ai media uccisi, e il Messico, con 120. Il caso delle Filippine e del Marocco ha spinto IFJ a sostenere che spesso ci sono «più vittime in situazioni di pace che in guerra». Che conclusioni si possono trarre?
È una delle nostre conclusioni: si muore più frequentemente quando si è giornalisti in un pase ufficialmente in pace che in un paese dove la guerra è dichiarata. Sono stati citati il Messico e le Filippine, in questi due casi è vero, ma la circostanza vale anche per il Pakistan, l’India o il Brasile. Come ho detto prima, in situazioni simili, si elimina un giornalista che fa domande. Che disturba gli interessi locali. Personalmente, ho l’abitudine di dire che possono uccidere un giornalista ma non la verità.
Come si organizzeranno le prossime iniziative di IFJ?
IFJ conduce numerose attività non conosciute al grande pubblico, insieme ai suoi numerosi affiliati in diversi paesi del mondo. Riguardano la sicurezza e i diritti dell’uomo. Ma anche i diritti sindacali e le negoziazioni collettive.
Cosa possiamo fare in quanto giornalisti liberi?
Tutti i giornalisti liberi devono sostenere il lavoro dei colleghi che militano nelle organizzazioni sindacali nazionali e nelle associazioni a difesa dei giornalisti. Poi, alcuni di quelli lavoreranno direttamente per la Federazione e saranno i portavoce di un buon giornalismo. Dell’etica e dell’indipendenza del lavoro. Questo perché è il primo diritto dei cittadini.