“Louise uscì di casa intorno alle nove e un quarto, ma non era vestita come quando usciva a fare la spesa. Indossava il cappotto nuovo, stretto in vita e svasato sui fianchi come la maggior parte dei suoi abiti. Portava un cappello che lui le aveva visto solo una volta, con guarnizioni bianche e una veletta che le copriva metà del volto.” La bella signora in tacchi alti che “martellavano allegramente il marciapiede” si dirige verso Rue Lepic. Siamo in pieno quartiere Montmartre, non lontano da Notre-Dame-de-Lorette. E il marito, Étienne, la pedina di nascosto, attento a non farsi scoprire. Perché? E’ sicuro che la moglie stia andando a un appuntamento d’amore, lo stia per tradire con qualcun altro. Rue Lepic è la medesima strada in cui, all’inizio della loro storia, lui e Louise si rifugiavano in un alberghetto a consumare furiosi amplessi clandestini, quando lei era ancora sposata con il primo marito Guillaume Gatin. “Irrompeva in camera e a volte si spogliava prima ancora di baciarlo. Il suo corpo emergeva dalla stoffa scura, che le scivolava ai piedi, e lei gli porgeva i seni, quei seni di cui era sempre andata fiera.”
Siamo alle ultime battute della vicenda che Georges Simenon racconta ne “La scala di ferro”, romanzo concluso nel maggio 1953 durante il soggiorno negli Stati Uniti, a Lakeville nel Connecticut; nove anni in cui riuscì a scrivere ventotto romanzi e ventitré inchieste di Maigret. Più di cinque libri l’anno, cifre da capogiro solo a nominarle. E sono storie durissime, partorite quasi in uno stato di trance – unica ipotesi plausibile per spiegare una produzione così torrenziale di trame che sembrano strappate al buio delle viscere.
Louise possiede una cartoleria ben avviata, La Papeterie Évariste Birard ereditata da suo padre, che dirige con tranquilla sicurezza avvalendosi di pochissimi collaboratori fidati. Étienne è un comune rappresentante di ventiquattro anni quando si conoscono, lei è maritata e senza figli, e il coniuge lavora in azienda con il compito di visitare i clienti e raccogliere ordinazioni.
Fin dall’inizio Étienne era stato terribilmente attratto dalla donna, che pure aveva sei anni più di lui: “Louise portava abiti di un materiale morbido e setoso che, a ogni movimento, rivelava la piena maturità delle sue forme, così che, mentre gli si muoveva intorno, lui era sempre tentato di immaginarla nuda”.
La loro storia va avanti segretamente già da qualche mese quando il marito muore, ed Étienne che è solo a Parigi, finisce per prenderne il posto, in ditta e in casa. Louise ha il buon gusto di rinnovare integralmente l’arredamento della camera da letto che si affaccia su Place Blanche, a due passi dal Moulin Rouge, dove per lunghi periodi si installa anche un lunapark. Così di notte sono quelle luci festose e colorate a invadere la loro stanza insieme alle musiche, al rumore dell’autoscontro o delle altalene che si capovolgono nelle gabbie di ferro, alle grida delle ragazze, al campanello della chiromante, ai dialoghi affannati delle coppiette che sostano a baciarsi sotto la loro finestra.
“Louise si spogliava lentamente ed era come se sbocciasse, le spalle rotonde, le braccia, le cosce emergevano dalla penombra, e infine il corpo intero che sembrava animare la stanza di una vita intensa e appassionata”. Facendo l’amore nel loro avvolgente rifugio, i due provano l’eccitante sensazione di essere circondati da un’intera folla, raddoppiando il godimento. “Quando ricadevano fianco a fianco, in loro non restava che un vuoto beato e ciascuno continuava a tenere la mano posata sul corpo dell’altro, dove capitava, per non interrompere il contatto”.
Avevano stabilito ben presto un’intimità totale tessuta di affinità, di scambi, di preferenze, di complicità, immutate anche dopo sedici anni di matrimonio, ora che erano arrivati a quarant’anni lui e quarantasei lei. Si raccontavano i libri che leggevano, indovinavano i pensieri l’uno dell’altro, percepivano i reciprochi turbamenti, anche impercettibili, se per esempio al ristorante capitavano accanto a qualche coppietta che non rinunciava a scambiarsi carezze decisamente maliziose sotto i loro occhi. E nelle calde giornate d’estate anche dopo pranzo si ritiravano nella loro stanza con le finestre spalancate: “Il fogliame degli alberi li nascondeva alla vista degli inquilini di fronte, ma a loro distesi com’erano, bastava alzare un po’ la testa per vedere la folla e le macchine. I rumori della città, attraversati a tratti da voci più chiare, isolate, li avvolgevano come, in campagna, il brusio sordo della natura”.
Fin dall’inizio si erano isolati, quasi rinchiusi nel loro mondo segreto, sufficienti a se stessi e senza avvertire alcun bisogno di frequenze estranee, a parte un’unica coppia di amici, Mariette e Arthur Leduc – lei era stata compagna di scuola di Louise – con i quali cenavano in casa ogni giovedì sera per poi proseguire con una partita a carte, giocando a belote.
Ma poi Étienne aveva cominciato ad avvertire strani e inspiegabili malesseri; una sensazione di vertigine accompagnata da un intenso e molesto calore che saliva alla gola e lo accompagnava sgradevolmente durante la giornata togliendogli le forze. Aveva anche smesso di fumare, e di bere. Il dottor Maresco, che abitava due piani sopra di loro, non aveva dato alcun peso a quei sintomi; e anche altri medici consultati di sotterfugio, senza dirlo alla moglie, non erano riusciti a formulare una vera diagnosi. Ma una catena di piccoli indizi lo avevano indotto a vaghi sospetti di cui si vergognava profondamente; le crisi sembravano ripetersi sistematicamente ogni volta che a pranzo o a cena veniva servito il purè. E lui aveva iniziato ad annotare quelle coincidenze su foglietti di carta, che nascondeva per prudenza tra le pagine di “La vita degli insetti” di Jean-Henri Fabre, “collocata giusta accanto a una raccolta di incisioni erotiche di Rops”.
Se Louise l’avesse trovate, cosa sarebbe successo? Che opinione si sarebbe fatta di lui? C’era il rischio, da scongiurare ad ogni costo, che il loro rapporto così prezioso e irrinunciabile andasse in frantumi.
Il lettore viene risucchiato, al pari del protagonista, in un vortice d’angoscia che qualcuno ha definito hitchcockiano. Louise accudisce Étienne amorevolmente, gli misura la febbre, si informa delle sue crisi, e quando lo vede tornare prostrato dalle visite ai clienti, lo invita a ritirarsi senza indugio in camera da letto, in cima alla scala di ferro che sale direttamente dal negozio. Dove più tardi, appena libera, lo raggiunge e “comincia a spogliarsi in un modo che, lui lo sapeva, era una sorta di segnale.”
L’enigma ci attanaglia in una morsa dolorosa, soffocante, e non si scioglie fin proprio all’ultima pagina del romanzo; avendo questa volta il grande Sim intinto il pennino nell’inchiostro più nero della sua ispirazione.