Qualcuno ha scritto: nelle nomine dei direttori di rete meno Palazzo Rai e più Milano. Io direi, e più Palazzo Chigi, più esterni ben intonati alla musica del premier. La Rai si trova in una situazione paradossale. Se il canone a 100 euro inserito nella bolletta elettrica frutterà a Viale Mazzini almeno 200 milioni in più e le entrate pubblicitarie e commerciali non cresceranno di molto, gli introiti da canone saliranno al 67-68 % e quelle da spot e vendite di prodotto scenderanno al 33-32 %. Ciò significa che la Rai sarebbe tenuta, in teoria, a fare più trasmissioni di servizio pubblico e meno trasmissioni da tv commerciale.
Nessuno però ne parla anche perché il metro di giudizio televisivo resta lo share, resta l’audience e la Rai, fra le tv pubbliche europee, è quella che realizza i maggiori ascolti. Anche a costo di sperimentare poco nuovi linguaggi, nuovi format più adatti ad una platea più giovanile e tenersi invece quella, certamente vasta e però di poco futuro, degli anziani. Tanti applausi per Sanremo dove la musica è stata pochissima e quella vincente è venuta da un simpatico complesso di estrosi sessantenni. Che senso ha?
La corsa all’audience ieri poteva essere giustificata perché la Rai incassava dal canone quanto introitava dalla pubblicità e dalla vendita di prodotti: 50 e 50 %. Ma col netto prevalere delle entrate da canone, la spietata legge del “più ascolti fai e più spot raccogli” vale sempre meno. Anche perché la legge Gasparri vige in gran parte ancora e quindi per la pubblicità la Rai incontra dei “tetti” ben precisi.
In queste condizioni il contratto di servizio Stato-Rai-Tv da rinnovare nel 2016 andrebbe rinegoziato sulla base di una emittente di Stato che dedica più risorse alle trasmissioni di servizio pubblico (culturali, sociali, ambientali, musicali, ecc.). Cosa che in realtà fa sempre meno, da anni, venendo battuta sul tempo da Sky con Classica o con Sky Art Hd. Gli stessi canali Rai del digitale terrestre non hanno una mission precisa alternando programmi di tipo culturale ad altri come tv movie, ecc. Una gran confusione. Con rare eccezioni, come Rai Storia.
La cultura in generale, in Rai, non ha da anni e anni una cittadinanza certa essendo ritenuta sinonimo di noia. A Fernando Ferrigno, uno degli ultimi inviati esperti di beni culturali e ambientali, quando portava al Tg3 un servizio nuovo, veniva chiesto: “Che mummia ci porti oggi?” Eppure erano dei racconti televisivi belli e coinvolgenti. Come quelli di Tina Lepri per il Tg2 o gli altri di Igor Staglianò tuttora in forza, per fortuna, alla Rai e però ai margini. Da anni e anni non si formano nuovi giornalisti capaci di essere insieme brillanti e competenti per cui si ascoltano banalità o castronerie indicibili, oppure non si ascolta un bel nulla. Un esempio: sabato 13 c’è stata una grande e affollata marcia a difesa dell’Appia Antica in una mattinata meravigliosa, ricca di suggestioni e di spunti televisivi. C’era una troupe di Rai News 24 e basta. Nulla nei Tg, nulla sul Tg Lazio. Discorso analogo per la musica. Grazie a Fabio Fazio gli italiani ritengono che Bocelli sia un grande tenore, in grado cantare un’opera intera senza microfoni. Per non parlare di Vittorio Sgarbi che compare su ogni rete pubblica osannato come un gigante della storia dell’arte e della museografia. La sola rete che ha raddoppiato gli spazi e i dossier su bellezza, paesaggio, ecc. è stata Rai 2 con Angelo Teodoli che però, guarda caso, è stato trasferito a Rai 4 e dintorni. Peccato per Rai 2 affidata ad una ex Magnolia.
La nuova direttrice di Rai 3, Daria Bignardi, ha esordito dicendo che lei non avrà l’ossessione dell’audience. La prendiamo in parola, ricordandole che la terza rete aveva una decina e più di anni fa trasmissioni coi fiocchi e anche di buona audience: Bellitalia, Ambiente Italia (entrambe rattrappite, precotte e mandate in onda al mattino), Nel regno degli animali, Prima della Prima (sulle “prime” all’opera, colta e spiritosa, ora scorciata e mandata sul digitale) e altre ancora. Resta Geo&Geo che continua a fare ottimi ascolti, anche senza promozioni particolari.
In altri Paesi il contratto di servizio fra Stato ed emittente pubblica viene discusso a fondo per mesi e mesi. Qui non se ne sa nulla. Eppure è la chiave di tutto. Certo – paradosso dei paradossi – questa nuova dirigenza Rai pescata fuori dal Palazzo di Viale Mazzini (dove di gente brava ce n’è ancora, penso a Eleonora Andreatta per la fiction o alla sacrificata Maria Luisa Busi o al già citato Massimo Bernardini), viene nominata da un direttore generale che a sua volta è stato voluto – senza filtri, né garanti di sorta – in persona dallo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi. Per la Rai non esiste alcun comitato di garanti all’inglese o un consiglio superiore dell’audiovisivo alla francese. Per cui meno Palazzo RAI, certo, ma più Palazzo Chigi e non è detto che sia un bene. Al contrario.