“Vous parlez allemand?” (Lei parla tedesco?)
“Non, je suis très français.” (No, io sono francesissimo)
I due gentiluomini sono seduti alla stesso tavolo, uno di fronte all’altro. Da una parte il colonnello della Wermacht, conte Franziskus Wolff-Metternich, incaricato da Hitler dopo l’occupazione militare della Francia di trafugare dal Louvre il maggior numero di opere d’arte; dall’altra parte Jacques Jaujard, conservatore del museo più famoso del mondo, nella condizione scomoda di un alto funzionario della nazione arresa ai carri armati, il quale però non rinuncia a un solo carato del proprio ruolo di grand commis di stato. Prima che Metternich nel suo impeccabile stile Junker metta piede nel museo, abbiamo visto un filmato di repertorio in cui le truppe del Reich attraversano una Parigi deserta, incomparabilmente bella; il Fürer in piedi nella Mercedes scoperta si guarda intorno estasiato e si informa quasi incredulo in tedesco: “Dov’è il Louvre?” Tra tutti i possibili obiettivi è lì che ha fretta di recarsi, il traguardo strategico più simbolico, più emozionante: mettere la mani da padrone sullo scrigno in cui la Francia raccoglie i suoi inestimabili tesori d’arte. Ma al Louvre non è rimasto praticamente più nulla: consapevoli che le sorti della guerra stavano volgendo al peggio, i responsabili del governo hanno già provveduto, con lungimiranza, a trasferire i capolavori nei sotterranei dei castelli francesi, al riparo da razzie e bombardamenti. Vive la France! Il patrimonio culturale era il primo tesoro da salvare se si voleva credere ancora, benché sconfitti, a una possibile redenzione. Senza identità sarebbe svanita anche ogni ragione per combattere. Si favoleggia analogalmente che in Inghilterra il Primo Ministro Winston Churchill, a un politico del suo gabinetto che nella corsa agli armamenti proponeva di tagliare le spese per la cultura, avesse replicato: “E allora per cosa combattiamo?”. Trovo esaltanti queste testimonianze, abituato a una paese, come l’Italia, che manda in malora fino all’autolesionismo uno tra i più stupefacenti e millenari giacimenti d’arte e insieme ad esso ogni sentimento di appartenenza e di orgoglio per le nostre radici. E trovo eccelsa l’idea del regista Aleksandr Sokurov, già autore del meraviglioso film L’Arca Russa girato in un unico vertiginoso piano sequenza di 96’ all’interno dell’Ermitage, dedicare ancora un’opera cinematografica alla pura celebrazione di una raccolta museale, al suo significato profondo, alla sua indispensabile conservazione. Il più bel film delle vacanze appena concluse, benché arduo da scovare nell’alluvione dei cinepopcorn.
Pur senza avventurarsi in una impossibile ricognizione dei capolavori leggendari del Louvre, Sokurov riesce a costruire con la leggerezza dell’estroso narratore una potente, appassionata metafora, sulla fragilità e la centralità dell’arte nella cultura di ogni nazione. Prende egli stesso parte alla storia, di persona, mostrandosi davanti al computer in video conversazione con il capitano di una nave in balia di altissimi marosi. Sul ponte, dentro grandi casse vacillanti, vengono trasportate opere d’arte di incalcolabile valore: il rischio di naufragio è altissimo, come molte altre volte è accaduto nel corso della storia con perdite irreparabili. L’audio è graffiato, gracchiante, la linea alquanto disturbata, ogni tanto si perde; riusciamo a stento a udire il capitano, il quale si giustifica affermando che non aveva altra scelta. Perché i capolavori del passato vanno salvati a qualsiasi costo? Perché senza di loro noi non esistiamo, non sappiamo chi siamo.
Sokurov ci mostra in sequenza le fotografie di Tolstoj, di Cechov sul letto di morte, di Gogol, i padri della letteratura russa dell’Ottocento, irrinunciabili lari a custodia della memoria del suo popolo. Come il Louvre rappresenta la memoria stessa della Francia, anzi dell’Occidente, dove non a caso è nata e si è radicata nei secoli la tradizione del ‘ritratto’, ignoto alle altre culture del mondo. Non importa se le opere provengano dall’Italia del Cinquecento o dai Fiamminghi del Seicento, o addirittura da civiltà remote e ormai scomparse. Napoleone stesso, grande razziatore con le sue campagne belliche, compare in carne e ossa nelle gallerie del museo, di fronte al proprio ritratto a cavallo di un asino; ne è fiero, ce lo indica dicendo: “C’est moi!” E anche la coraggiosa Marianne, con in capo il cappello frigio, emerge da un quadro a declamare: “Liberté Egalité Fraternité!” Il Louvre ci appare per quello che è, una possente roccaforte del tredicesimo secolo, residenza dei re prima che la Rivoluzione dell’89 lo erigesse a museo nazionale. Esteso, accresciuto, magnificato, generazione dopo generazione, a testimonianza che una civiltà può perpetuarsi solo se si impegna a tutelare le proprie vestigia.
Mentre il racconto procede, anche la nave arranca nella tempesta per portare in salvo – dove? Per conto di chi? – il suo carico prezioso; e il dialogo di Sokurov con l’intrepido comandante del mercantile sembra riecheggiare lo scontro di potere, la sfida diplomatica, il confronto di intelligenze, tra il direttore del Louvre e il plenipotenziario dell’esercito di occupazione tedesco. I quali troveranno inevitabilmente l’intesa per un imprescindibile, tacito accordo: lasciare le opere d’arte al loro posto e preservarle in ogni modo dalla furia dissennata degli eserciti in arme. Se i barbari alle porte, chiunque essi siano, hanno come preciso obiettivo l’azzeramento delle società sotto attacco distruggendone i capolavori millenari, l’unico dovere è quello di proteggere e difendere a oltranza la nostra memoria. Ed è singolare che a ricordarcelo sia un figlio della Grande Madre Russia, contro la quale persino l’imbattibile Bonaparte, persino il disumano nazismo di Hitler, sono miserevolmente falliti. Forse è vero, come in molti ormai sostengono, che l’Europa Unita per trovare la sua vera forza e coesione ha bisogno di allargare i confini all’antica e nobile terra degli Zar.