A Sultanamhet le moschee sono state costruite a immagine di una chiesa. Il Kamikaze, siriano di origini saudite, – sicuramente dell’Isis, ha ammesso Erdogan – s’è fatto saltare nell’ippodromo bizantino, tra quella chiesa, Ayasofia (divina saggezza), e Sultan Ahmet Camii (o moschea blu), non lontano da Popkapi, il palazzo sul Bosforo che il sultano si costruì inglobando la reggia bizantina. É la città dei turisti, tedeschi (8 ne sono stati uccisi ieri), europei, americani ma anche e soprattutto arabi, persiani, musulmani, sunniti e sciiti. I turchi, mercanti di tappeti, inservienti negli hotel, ristoratori, la sera prendono il traghetto, o la metropolitana, e rientrano nei loro quartieri, dove la vita pulsa tutta la notte. Capita di incontrare a Sultanahmet più donne velate che in tutta Istanbul, magari scortate dal loro uomo in calzoncini e con il cappello all’incontrario, spose dell’Islam ricco, in vacanza premio. Un simbolo, una lezione di storia e di arte, un non luogo e un titolo solo oggi sui giornali. “Istanbul, la strage dei turisti”, la Stampa aggiunge “tedeschi”, il manifesto “colpita al cuore”.
Il califfo contro il sultano. Domenico Quirico racconta di un apprendista stregone, Erdogan, che ha coperto i terroristi, li ha usati contro i curdi, li ha difesi dai russi, forse ha comprato il loro petrolio, e oggi viene preso di mira come apostata, per gli wahhabiti del Daesh, molto peggio che infedele. Non scrivono cose troppo diverse Venturini, Corriere, e Garimberti, Repubblica. Ozpetek ricorda che Istanbul “è un ponte geografico e culturale tra Oriente e Occidente”. Federica Mogherini che “il califfo è più debole e reagisce all’assedio del mondo”. – O richiama i suoi ex protettori al dovere della solidarietà- Ricorda, anche, Mogherini, che la guerra contro il terrore si fa là, tra Siria e Iraq (vero, Renzi?). Poi aggiunge che bisogna stabilizzare la Libia, ma che “un intervento armato sarebbe un regalo a Daesh”.
Hope, Washington Post. Offers hopeful vision, New York Times. Il settimo, e ultimo, Discorso sullo Stato dell’Unione di Barak Obama gira intorno a questa parola, speranza. Una speranza sorretta dalla ragione, dal lavoro che è stato svolto, dai risultati conseguiti. Fears, paure, sono quelle che i repubblicani alimentano, che usano per proporre un’idea dell’America fortezza assediata, con un muro a dividerla dal Messico, armi da guerra sotto il letto e un attrezzo ideologico, l’islamofobia, che non protegge dal ma rafforza il terrorismo. “Boring, slow, lethargic” così Donal Trump commenta il discorso di Obama. Mentre Hilary Clinton, finalmente, fa propria la campagna del Presidente contro le armi.
Il resto è sulla “polveriera di Quarto”, l’assedio ai 5 Stelle, che messe da parte le fanfaluche sulla condivisione di ogni scelta in rete, hanno invitato il sindaco a dimettersi, lei ha rifiutato con il sostegno dei consiglieri, loro l’hanno espulsa. Poi hanno minacciato querele contro insinui che sapevano qualcosa dei ricatti di camorra, hanno lanciato “un’offensiva in tv” che, secondo Repubblica ha fatto “autogol”. E secondo Grasso, Corriere, “si è scolorata nella chiacchiera degli odiati-amati salotti televisivi”. Il premier dice: “Non hanno il monopolio della morale”, Travaglio difende i 5 Stelle: “Da quando il Pd e la stampa al seguito hanno promosso Quarto (Napoli) a capitale della nuova Italia, perché nessuno si ricordi di Roma capitale della nuova mafia, lo spettacolo è avvincente”. Sarà!