Con Silvana Pampanini scompare il simbolo di una sensualità che le nuove generazioni possono a stento immaginare, strettamente collegata a sensazioni altrettanto vaghe che inaccessibili, alla pari dei sogni erotici o dei Calendarietti del Barbiere dal profumo penetrante di cipria, che per ogni mese dell’anno proponevano una donna sorridente e discinta, carica di promesse irresistibili. Erano icone appartenenti a quel genere di erotismo rubato, di nudità mai nude, tenacemente celate da paraventi, nuvole di bagnoschiuma, scivolose lenzuola si seta, da cui spuntavano quasi loro malgrado, inarrestabili, l’esuberante colmo dei seni, le cosce ben tornite, le schiene maliarde. Era l’Italia del dopoguerra ancora tribolata dalla fame, fame di tutto, in cui le femmine per essere attraenti dovevano apparire floride, rigogliose, e avere molto da offrire, molto da desiderare; sullo schermo, nelle scene più audaci, apparivano in calze e reggicalze, in guepiere strizzate, con avare porzioni di pelle mostrata dietro veli malandrini, pizzi e trine ben misurati sul gioco estenuante del vedo e non vedo.
La Pampanini apparteneva a quella galassia di dee dell’Olimpo che dal palcoscenico del varietà venivano travasate nel cinema ad appagare gli occhi e l’appetito esagerato di maschi in marasma ormonale per una vita finalmente ritrovata nel pieno del suo vigore, insieme alla pace. Le donne vagheggiate assomigliavano nelle fattezze a Eleonora Rossi Drago, Sofia Loren, Silvana Mangano; e, nella generazione successiva, alle non meno prorompenti Marisa Allasio, Sylva Koscina, Rosanna Schiaffino, Stefania Sandrelli, aureolate da luminose esche di felicità.
Oggi le nostre ragazze sono ancora belle, lo saranno sempre, ma l’impressione è che abbiano rinunciato a porsi come l’ornamento del creato, a presentarsi quale dono ineffabile per chi le guarda. Sembra che abbiano smarrito persino quel modo di camminare che induceva Mario Soldati a esclamare affascinato: “Incessu patuit dea” (“dall’incedere si rivelava per una dea”). Ma Soldati aveva studiato dai padri Gesuiti, sapeva di latino, accarezzava il vizio, e conosceva bene la proibizione che esalta a dismisura il desiderio. Diceva Fellini che la nostra religione cattolica, con tutti i divieti, le interdizioni, i peccati, e poi con il perdono, ci aveva regalato un mondo immaginario in cui far festa senza tregua, come eterni adolescenti mai sazi, che proiettano sulla donna un piacere amplificato e inestinguibile. Condizione propizia all’artista ma anche all’essere umano in generale che prova nei confronti della sua compagna di strada la stessa ammirazione di Adamo nel Paradiso Terrestre, quando Dio gli mise accanto un altro essere fornito degli attributi più ghiotti.
Nelle semplici trame dei film di quegli anni, degni delle barzellette cochon, gli attori che corteggiavano le protagoniste, smaniavano per loro, le bramavano fino alla consunzione e al deliquio, lasciando pregustare allo spettatore banchetti di inaudita voluttà. Erano Totò, Tino Scotti, Carlo Campanini, Peppino De Filippo, Nino Taranto, Enrico Viarisio, Riccardo Billi, Aroldo Tieri, Carlo Croccolo, Virgilio Riento,e poi Walter Chiari Alberto Sordi Ugo Tognazzi; i comici che non temevano l’insistenza farsesca, infantile, nell’elemosinare quel ben di Dio, nel fantasticare per conto del pubblico gli infallibili paradisi annunciati già nei titoli in cartellone: I pompieri di Viggiù, È arrivato il cavaliere, 47 morto che parla, Bellezze in bicicletta, O.K. Nerone, Io sono il Capataz.
La Pampanini apparteneva a quella categoria di semidee che erano prima transitate dai concorsi di bellezza – Silvana aveva vinto il titolo di Miss Italia nel 1946 – e poi tentavano la strada del set partecipando ai provini cinematografici, immancabilmente accompagnate dalle madri. Le quali, ingenue o forse sagaci, in qualche caso accettavano di attendere in anticamera mentre le figlie posavano davanti alla macchina da presa; e una volta in ballo, con i riflettori accesi, in nome dell’arte non disdegnavano di esibirsi al naturale, via anche reggiseno e mutandine, come richiedeva ‘il mercato internazionale’. Così narravano Aldo Fabrizi e Tino Scotti nel meraviglioso libro di Francesco Savio (Pavolini) “Ma l’amore no”; i provini erano chiamati in gergo “alla francese” perché in macchina non c’era pellicola, era tutta una finta, che però spesso riservava ai falsi operatori avventure insperate.
Silvana possedeva una bella faccia da dea quirite, forme maestose e provocanti, aria spavalda; per sua ammissione aveva avuto “più corteggiatori che emicranie”; e dai nomi decisamente roboanti, capi di stato e teste coronate: Jimenez, il presidente del Venezuela, Fidel Castro “lider maximo” della rivoluzione cubana, il principe ereditario afgano Ahmed Shah Khan, re Faruq I d’Egitto. Ma la lista comprende anche colleghi di rango: Tyrone Power, William Holden, George DeWitt, Omar Sharif, Orson Welles, il tenore Giuseppe Campora; per non parlare dei divi italiani. Totò faceva carte false per lei, e fu la stessa Pampanini a mettere in giro la storia che la canzone “Malafemmina” fosse stata composta per lei dal disperato “principe De Curtis”. Alberto Sordi ne fu l’amante anche se l’interessata lo ha sempre smentito. Anzi nella sua autobiografia intitolata “Scandalosamente perbene” l’attrice romana pur ammettendo alcuni flirt innocenti (“Parliamoci chiaro, che vuol dire flirt? Se si dice fare l’amore, avere una storia: mai. Se si dice un bacetto, una cosetta, vabbè, si.”) resta fedele alla versione romantica replicata senza mai stancarsi: un unico vero grande amore con un uomo di dieci anni più maturo di lei, bello, ricchissimo, estraneo al mondo dello spettacolo, che era morto nel 1952, un mese prima delle loro nozze. “Ho fatto tanto scandalo, ma sono per bene.” Affermava “Silvanella” fiera di sé e della sua bellezza senza macchie.
A me è capitato di incontrarla quando ormai era molto agée, ma per nulla rassegnata: indossava abiti maculati e ostentava una faccia da anziana matrona di Svetonio, con in testa una immensa parrucca di ricci impenitenti e gli occhi indiavolati dal mascara. Capitava qualche volta da Otello alla Concordia, dove il mercoledì si radunavano i reduci del nostro cinema glorioso, a cenare insieme e poi concludere la serata sfidandosi a scopone. C’erano Ettore Scola, Furio Scarpelli, Gigi Magni, Citto Maselli, Tonino Delli Colli, chi capitava. La prima volta che la vidi, la accostai con deferenza dovuta a una materializzazione, e non mi trattenni dall’abbracciarla: “Mi permetta di baciare un sogno”, le dissi. E lei permise.