Una legge lo impone anche se La7 non l’ha osservato consegnando un filmato in chiaro e creando un precedente allarmante. Con quali conseguenze?
Il sequestro del filmato originale di un’inchiesta trasmessa da Piazzapulita, eseguito presso l’editore della rete televisiva La7, può consentire ai magistrati della Procura di Roma, che l’ hanno ordinato, di individuare la fonte fiduciaria del giornalista Antonino Monteleone, che ha realizzato il servizio intervistando un agente di polizia e mascherandone l’identità per evitare ritorsioni nei suoi confronti. Questo sequestro, effettuato scavalcando il giornalista e la sua redazione, desta allarme e preoccupazione, sia per il fatto in sé, sia per le modalità con le quali si è svolto, e ancora di più per gli effetti negativi che questo precedente può avere sul giornalismo di inchiesta se la vicenda non viene rimessa sui binari giusti.
Analizziamo i fatti. I procuratori hanno operato il sequestro presso l’editore, in questo caso la rete La7, e non presso il giornalista, probabilmente proprio per aggirare così un prevedibile l’ostacolo: il cronista avrebbe potuto opporre e far valere con solide argomentazioni il segreto professionale.
Il segreto professionale dei giornalisti è contemplato dall’articolo 2 della legge 69 del 1963, la legge che ha istituito l’Ordine dei giornalisti. Questa norma obbliga il giornalista a tutelare l’identità della fonte se essa è di natura fiduciaria. Senza questa prerogativa il giornalismo d’inchiesta sarebbe pressoché impossibile.
A disciplinare l’esercizio del segreto professionale dei giornalisti professionisti interviene l’articolo 200 del codice di procedura penale, recitando che il giudice (il “giudice”, non un magistrato inquirente, si noti) può ordinare al giornalista di rompere il segreto soltanto qualora la rivelazione dell’identità di quella fonte fiduciaria è indispensabile per provare un reato o per procedere all’accertamento della veridicità del fatto. Il giornalista può rifiutare quest’ordine, rischiano un’imputazione per reticenza.
La responsabilità degli editori
Non sembra questo il caso per il servizio di Piazzapulita. Di conseguenza ciò che é avvenuto a opera dei magistrati di Roma nei confronti del programma ha suscitato un’ondata di opportune e indignate reazioni delle istituzioni della categoria e della stessa redazione. Il denominatore comune delle proteste è individuabile proprio nell’agire dei procuratori romani, i quali – appunto – si sono rivolti all’editore invece che alla redazione e al giornalista per aggirare l’obbligo che gli iscritti all’Ordine hanno di tutelare la fonte fiduciaria. E probabilmente la scelta dei magistrati è spiegabile proprio con queste motivazioni.
Ma la vicenda non finisce qui. Proviamo perciò ad approfondire la questione estendendo il campo di osservazione. E’ sufficiente criticare i magistrati senza parlare dell’editore? Siamo sicuri che non vi sia alcunchè da ridire sul suo operato? Sul fatto che abbia consegnato il filmato?
Cosa dice la legge
Tralasciamo ciò che hanno stabilito sentenze delle Corti italiane ed europee. In casi come questo è meglio andare alle fonti del diritto. Sul segreto professionale la fonte primaria è quell’articolo 2 della legge istitutiva dell’Ordine: quella norma obbliga anche gli editori a tutelare la riservatezza dell’identità di una fonte fiduciaria.
Infatti, l’articolo 2 afferma testualmente: “Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse”. La ratio della norma è di palmare evidenza: gli editori furono co-obbligati da questa legge proprio perché si voleva evitare che il segreto professionale potesse essere facilmente aggirato rivolgendosi a loro anziché ai giornalisti.
Bisogna anche dire che sono altrettanto evidenti sia il limite di applicazione dell’articolo 2 agli editori, sia le difficoltà dei giornalisti di esercitare il segreto professionale. Questa norma ha natura deontologica. Se viene violata (cioè se chi è tenuto a osservarla non lo fa e rivela l’identità della fonte fiduciaria) la sanzione non può essere che di natura disciplinare. La stessa legge 69 del 63 ne prevede quattro: avvertimento, censura, sospensione, radiazione. Tutte sanzioni deontologiche. Ai giornalisti vengono applicate dai consigli di disciplina dell’Ordine. E agli editori che violano l’obbligo di riservatezza, invece, chi le applica? Che cosa rischiano? Nulla sul piano deontologico-giurisdizionale. Non esistono organi deontologici paragonabili ai consigli di disciplina. Il vuoto normativo è evidente.
Queste osservazioni ci riportano a una questione più generale: la poca considerazione riservata al diritto all’informazione nell’ordinamento giuridico italiano. E’ poca nel senso che questo diritto ha scarse e precarie tutele. Basta ricordare che non è previsto alcun reato (e alcuna aggravante di reato) per chi deliberatamente ostacola la libertà d’informazione.
Che cosa si può fare
La vicenda di Piazzapulita ripropone, oltre ai vuoti legislativi del nostro ordinamento, la questione dei rapporti di forza fra giornalisti ed editore. Dunque, diamo a ciascuno il suo: ai magistrati la loro parte di critiche e di proteste, agli editori la responsabilità di osservare obblighi stabiliti dalla legge e consolidati dalla prassi. In questa vicenda il comportamento più censurabile appare quello dell’editore, il quale – nonostante l’articolo 2 sia chiaro e perentorio su ciò che è tenuto a fare – ha consegnato il filmato ai magistrati. Si può lasciar correre senza dire nulla? Così il cedimento de La7, che ha sorvolato sui diritti e le prerogative dei giornalisti, rischia di diventare un temibile precedente, rischia di produrre il progressivo prosciugamento delle fonti delle notizie. Chi accetterà di parlare in confidenza con un giornalista se l’editore può impunemente rivelare la sua identità?
Quel poco o tanto di giornalismo d’inchiesta, di cane da guardia del potere, di svelamento degli arcana imperii che ci è rimasto rischia di finire nel sacco dei ricordi di ciò che c’era e non c’è più.
Il nocciolo della questione sta nella legislazione e bisogna battersi per un suo positivo aggiornamento. Ma a breve termine c’è poco da sperare che si riesca a ottenere, per ragioni politiche e culturali e soprattutto perché i rapporti politica-giornalismo sono malati.
Allora bisogna agire con fermezza sul terreno sindacale e sulle norme che regolano le relazioni giornalista-editore, sul ruolo dei Comitati di redazione all’interno delle testate, utilizzando il potere contrattuale del sindacato e l’influenza che l’Ordine dei Giornalisti può esercitare con la forza che gli proviene dalla legge. La partita si gioca qui. E il rinnovo del contratto di lavoro è la prima occasione che si offre.
Sarebbe importante poter agire con questa leva per puntualizzare e risolvere anche altre questioni: come la responsabilità dell’editore per la tutela legale dei giornalisti (dovrebbe essere fornita sempre, anche quando la testata chiude e loro si trovano nudi davanti alla legge e ai creditori). Mettere gli editori di fronte a questi problemi è fra l’altro un modo per aiutarli a confrontarsi con la realtà cercando soluzioni vere, non scorciatoie miopi.
GFM