A distanza di una settimana dalla sua approvazione in Consiglio dei ministri, che il tanto declamato Decreto sul Freedom of Information Act italiano sia dovuto trapelare attraverso una fuga di notizie la dice lunga su come l’impostazione culturale, prima ancora che normativa, propria della Pubblica Amministrazione, sia il primo vero scoglio da superare per aspirare ad adeguate forme di (buon) governo, e non solo in materia di trasparenza.
Questo per il metodo. Venendo al merito, sono opportune innanzitutto due premesse:
- il documento diffuso è una bozza, per quanto, pare, molto vicina al testo definitivo;
- il testo approvato in Consiglio (qualunque esso sia) dovrà ottenere il parere – obbligatorio ma non vincolante – del Parlamento per poi essere approvato definitivamente di nuovo in CdM.
Ciò detto, leggendo il Decreto il primo dato è in apparenza positivo e riguarda l’estensione del diritto di accesso a chiunque, senza “alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente” né la necessità da parte di quest’ultimo di motivare la richiesta di accesso (Art. 6, comma 1 e 2). Senza dubbio un grande passo avanti rispetto alla Legge 241/1990 e al Decreto 33/2013 che istituiva l’accesso civico (limitatamente a specifici documenti soggetti a obbligo di pubblicazione). Purtroppo però è anche l’unico.
I PUNTI DEBOLI, E QUELLI DEBOLISSIMI
Accesso a cosa? Innanzitutto, il Decreto parla specificamente di accesso “ai dati detenuti dalla Pubblica Amministrazione”, e non ai documenti. Una differenza sostanziale e non solo terminologica, che se confermata renderebbe la norma del tutto inefficace (oltre che complicata sia da valutare che da adottare). D’altronde, l’attuale Decreto emenda solo il precedente D. 33 (“Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”) e non la L. 241 (“Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”), che pertanto continuerebbe a regolamentare l’accesso agli atti pubblici. E probabilmente non è un caso se già a novembre, il prof. Mattarella, capo ufficio legislativo del Dipartimento per la funzione pubblica, in occasione di un incontro sul FOIA sostenesse quanto segue:
Inoltre, non solo la norma sancirebbe il diritto di accesso limitatamente ai dati e non ai documenti, ma lascia comunque alla PA ampio margine per eludere agilmente anche tale ‘concessione’, attraverso limiti all’accesso più ampi rispetto alla normativa precedente (come si legge nella Relazione illustrativa), e allo stesso tempo troppo vaghi e discrezionali. L’accesso, infatti, può essere negato “per evitare un pregiudizio rilevante, verosimile e specifico alla tutela di” una serie di interessi generalmente tutelati dalle leggi sull’accesso alle informazioni pubbliche (dal segreto di Stato alla sicurezza pubblica e nazionale). Ma definiamo “verosimile”. È ad esempio verosimile che voler accedere ai documenti (comunicazioni, e-mail, circolari, ecc.) che attestino chi ha stabilito di coprire le ormai famigerate statue in occasione della visita del presidente iraniano Rouhani possa danneggiare “le relazioni internazionali” italiane, così come chiedere conto degli insondabili bilanci di Expo potrebbe pregiudicare “la stabilità finanziaria ed economica dello Stato”?!
Un ulteriore determinante aspetto riguarda un vulnus già rilevato nel testo reso noto la scorsa primavera dall’ufficio legislativo del Partito Democratico e mantenuto anche in questa versione, ovvero il dispositivo del silenzio-rigetto (in perfetta controtendenza col resto della riforma, che prevede invece il silenzio-assenso), sarebbe a dire che “decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta”. Così, se da un lato il cittadino non deve più motivare la sua richiesta di accesso, dall’altro anche l’Amministrazione è esentata dal motivare un eventuale diniego, tradendo sostanzialmente il principio di accountability alla base del FOIA. Come dire, domandare è lecito, rispondere è cortesia.
L’alternativa, in caso di diniego, è rivolgersi al TAR, con ulteriore aggravio di tempi e oneri a carico sia del cittadino che della PA, in termini di impegno di risorse economiche e umane.
Come se ciò non bastasse, anche laddove il TAR dovesse dare torto all’Amministrazione, per quest’ultima non è prevista alcuna sanzione, deresponsabilizzando di fatto dirigenti e funzionari, con buona pace dell’accountability di cui sopra.
Infine c’è la questione dei costi a carico del richiedente. Il fatto che in alcuni casi – quali la riproduzione di ingente documentazione cartacea, audio-visiva, ecc. – l’Amministrazione chieda il rimborso per le spese sostenute è previsto anche in altri ordinamenti (sebbene con l’eccezione di studenti e ricercatori). Quello che lascia perplessi, piuttosto, è la totale assenza di regolamentazione; non sono infatti indicate casistiche né procedure o costi puntuali.
TIRANDO LE SOMME
Al netto della questione dirimente tra dati e documenti, e in attesi di chiarimenti in tal senso, così com’è, la legge sposta davvero poco in termini di accessibilità e accountability. Ma cambia qualcosa in termini di trasparenza: diminuisce quella proattiva, nel senso che ci sono meno oneri di pubblicità per la PA (quelli introdotti col D. 33 erano in alcuni casi francamente eccessivi, specie per i piccoli enti, col rischio inoltre di generare la c.d. ‘opacità per confusione’), ma non c’è stata l’auspicata compensazione in termini di trasparenza reattiva – un vero FOIA, appunto – poiché il diritto riconosciuto ai cittadini è limitato ai dati e per giunta ‘annacquato’ dalla discrezionalità lasciata alle Amministrazioni per eluderlo.
I termini del rapporto tra amministratori e amministrati dunque non cambiano; si rende il cittadino giusto un po’ meno suddito nel rapporto con la PA, mentre i regnanti restano esenti da particolari oneri, obblighi o responsabilità.
Ci si aspettava un testo autonomo che, in merito all’accesso, archiviasse la L. 241 e superasse il D. 33, un testo efficiente che guardasse al futuro, e invece pare di assistere al passo del gambero: uno avanti e due indietro. Non sorprende dunque che l’Italia sia in fondo ai principali rating in materia, non da ultimo quello sulla corruzione percepita pubblicato, ironia della sorte, proprio oggi.
@fama_andrea (Iniziativa per un Freedom of Information Act in Italia – www.foia.it)