Inchiesta del mensile Scarp de’ Tenis, che è andato nella città belga (da dove sono partiti gli attentatori di Parigi) a intervistare il funzionario che lavora nel Centro antiradicalizzazione. “La religione è un elemento che arriva in un secondo momento. Quello su cui davvero fanno leva i reclutatori è l’identità”
MILANO – L’estremismo islamico che affascina alcuni giovani europei “non è una questione esterna, legata alla Siria o alla situazione internazionale”, è invece “un problema nostro, dobbiamo innanzitutto capire come la nostra società ha creato le condizioni del perché i ragazzi sono attratti dalla radicalizzazione“. Olivier Vanderhaeghen è il funzionario che lavora nel Centro antiradicalizzazione di Molenbeek, comune alle porte di Bruxelles, da cui sono partiti alcuni degli attentatori di Parigi e parecchi foreign fighter per la Siria. Lo ha intervistato Paolo Riva per Scarp de’ Tenis, mensile di strada promosso da Caritas Ambrosiana e Caritas Italiana, sul numero di febbraio. “La religione – spiega Vanderhaeghen – è un elemento che arriva in un secondo momento. Quello su cui davvero fanno leva i reclutatori è l’identità. Propongono a dei ragazzi che si sentono inutili un riconoscimento e uno scopo: la jihad”.
Nel reportage da Molenbeek, dal titolo “Viaggio nella “fabbrica di jihadisti'”, viene spiegato come un giovane arriva ad arruolarsi nelle fila dello Stato Islamico. “Per prima cosa, si rompono i legami con gli amici, con la scuola, con lo sport e con tutte le altre reti di relazione – racconta Vanderhaeghen -. Poi ci si ritira in casa, abbandonando lo spazio pubblico. Infine, c’è la rottura con la famiglia. I ragazzi radicalizzati si rinchiudono nelle loro stanze, stanno ore di fronte al pc leggendo su internet testi di fanatismo religioso e accusano padri e madri di non essere dei buoni genitori e, se lo sono, di non essere dei buoni musulmani. Dicono che il vero Islam è quello che hanno conosciuto e non quello che praticano i loro parenti”. Molte mamme si rivolgono al Centro anti-radicalizzazione per chiedere aiuto e in alcuni casi il giovane non parte. Ma il lavoro degli operatori sociali che seguono queste famiglie è solo all’inizio. Perché bisogna offrire ai loro figli un’alternativa.
Tra gli altri servizi di Scarp de’ tenis di febbraio, tutti i dati della seconda indagine sulle persone senza dimora che vivono in Italia, un’intervista a Caparezza e la storia di Marco, ballerino in sedia a rotelle. (dp)