Dal giugno 2014 sono parte civile in un processo in cui l’imputato risponde di diffamazione ai miei danni, a mezzo stampa e continuata. La singolarità del caso, che nasce da una mia sofferta querela del 2012, non sta solo nel fatto che da giornalista sono parte offesa rispetto ad una condotta che solitamente, invece, ci viene addebitata come colpa nell’esercizio della nostra professione; vi è anche una seconda particolarità che può essere considerata l’ulteriore spia di una nuova deriva che, in materia di esercizio della libertà di stampa, vede battuta con sempre maggiore frequenza una “via giudiziaria” che opprime oltre ogni immaginazione: come soggetto da tutelare nel processo, mio malgrado, a dibattimento abbondantemente iniziato, sono stato querelato dall’imputato.
E’ facile spiegare perché un giornalista debba arrivare al punto di denunciare qualcuno per difendere la propria reputazione. Ma non è altrettanto semplice analizzare alla radice il funzionamento di un sistema giudiziario che purtroppo consente maglie larghe a chi, seduto sul banco degli imputati, invece di rispondere dell’accusa che la Procura gli rivolge, può essere nelle condizioni di trasformare il processo in un’estenuante ping pong.
Vi è il rischio, cioè, che a dibattimento in corso si allunghino i tempi della giustizia con richiami a fumose denunce che fanno perdere alla controversia principale il carattere d’urgenza, degradandola al falso rango di “disfida personale”.
Sul primo punto, ovvero l’obbligo che avevo di proteggere quel mio servizio giornalistico pubblicato sul Corriere della Calabria, aggiungo solo che ho agito – rivolgendomi ai carabinieri di Gioia Tauro che assieme alla Procura di Palmi hanno considerato fondata la mia querela – nel bel mezzo di una campagna di stampa in stile macchina del fango azionata contro di me.
Dopo aver fatto il mio lavoro, sono stato vittima di una delle tante operazioni a cui oggi con sempre maggiore frequenza vanno incontro i cronisti quando, di fronte ad una inchiesta giornalistica non smentita e ad una notizia vera, il protagonista di quegli articoli scomodi sceglie di delegittimare con azioni ripetute chi aveva avuto il solo intento di informare.
È una fattispecie che ricorre spesso, questa, ed assieme al mio avvocato Maria Corio ho inteso insistere con la costituzione di parte civile anche per tentare di sensibilizzare sugli attacchi che subiamo: il giornalista non è esente dalle critiche, o peggio dalle richieste di rettifica, ma la dialettica tra il dovere di informare e il diritto alla tutela del personaggio pubblico non deve travalicare le regole. La continenza del linguaggio che si richiede a noi, deve essere pretesa anche per altri.
Sulla seconda questione, ovvero la temerarietà strumentale delle controquerele di cui può essere destinatario un giornalista parte civile, osservo che la denuncia fatta contro di me nel maggio scorso segue ad un’altra, già archiviata da tempo. Siamo già al secondo tentativo di mettere in cattiva luce il mio ruolo. Quest’ultima querela (la seconda sic !) è stata presentata pretestuosamente per stigmatizzare alcune mie pubbliche prese di posizione, ovvero per chiedere di essere indagato poiché da giornalista – e da rappresentante dell’Unione nazionale cronisti (Unci) – in qualsiasi contesto professionale io mi trovi, sono solito descrivere il mio caso giudiziario e la condotta diffamatoria per cui l’imputato è a processo.
Vi è quindi un terzo livello d’interesse in questa vicenda che chiama in causa non più solo la funzione sociale del giornalista – che deve scrivere tutto quel che sa, senza vedersi definito “mascalzone” e additato come un bugiardo come è successo a me -, non più solo la funzione giudiziaria della parte civile – che deve essere tutelata in quanto soggetto che partecipa con un proprio legale al dibattimento controesaminando l’imputato e portando nuove prove -, ma questa volta si tenta anche di impedire la funzione sindacale del giornalista: querelato, e oggi nuovamente indagato mentre sono parte offesa, perché ho raccontato in pubblico la mia odissea.
Come se non bastassero queste già gravi esposizioni della mia persona, a peggiorare il quadro in vista della prossima udienza fissata per il 9 febbraio davanti al giudice monocratico di Palmi, nei mesi scorsi si è formato un quarto danno nei miei confronti.
A seguito di un mio esposto, nel luglio scorso, la Procura ha dovuto aprire un fascicolo di indagine (n° 1149\2015), assegnato al magistrato Domenico Cappelleri, con la grave ipotesi di Falso ideologico commesso in danno mio e della giustizia. È capitato infatti che a giugno fosse saltata un’udienza importante del processo in cui sono parte civile, prevista nei giorni immediatamente successivi alla seconda “querela pretestuosa” presentata contro di me. Il rinvio del dibattimento è stato deciso dal giudice a seguito di una “istanza di differimento” presentata dal legale dell’imputato, Antonio Papalia, che aveva dichiarato di essere impossibilitato a presenziare quel giorno al processo perché nelle stesse ore si trovava a Roma.
Nel mio esposto, invece, ho potuto documentare come l’avvocato – la cui azione era stata fondamentale nella presentazione della seconda querela contro di me – non si trovasse affatto nella Capitale, bensì nella città in cui si tiene il processo, Palmi, a pochi metri dal Tribunale. Un legittimo impedimento molto sospetto, quindi, su cui ora stanno indagando la Procura e l’Ordine degli avvocati; un misterioso rinvio, però, che ha avuto l’effetto di rimandare ancora la conclusione del processo e l’interrogatorio dell’imputato che, certamente, è facile prevedere, quando si presenterà per la prima volta in aula potrà spiegare che nel frattempo è stata aperta, e non ancora archiviata, una seconda indagine (del tutto strumentale) su di me.
Ma vi è un ultimo, quinto, livello di questo caso giudiziario che mi appare il più grave, se è possibile, ed è quello del profilo pubblico di quello che io non considero affatto un mio contendente, ma che tale si riconosce lui stesso visto l’accanimento contro di me che esercita. L’imputato del processo in cui sono parte civile; l’imputato che secondo la Procura ha risposto più volte male ad un mio articolo mai smentito; l’imputato che mi ha querelato non una ma due volte; l’imputato che incassa il rinvio del processo con metodi così sospetti; l’imputato che vorrebbe che io non avvertissi l’opinione pubblica sulle “entrate a gamba tesa” a cui può andare incontro la libertà di stampa, l’imputato si chiama Giovanni Pecora. Egli, vicepresidente della nota Fondazione antimafia dedicata alla memoria del valoroso giudice Antonino Scopelliti, non ha mai digerito il fatto che nel 2012 scrissi che lui e la sua famiglia – compreso il figlio Aldo Vincenzo, fondatore del sodalizio antimafia “E Adesso Ammazzateci Tutti” – erano residenti in un palazzo che all’epoca era del clan Longo, oggi confiscato. Spero che non intervenga la prescrizione, ovvero che il processo – rallentato con mezzi che sono al centro di un’indagine – possa arrivare alla conclusione per sancire soprattutto un principio: bisogna arginare la tentazione di rispondere ad una inchiesta giornalistica con la delegittimazione di chi la scrive e, inoltre, bisogna consentire che la giustizia faccia il suo corso regolare senza promuovere pressioni indebite e querele pretestuose in danno di una parte civile, tanto più se questa punta a veder difesa la libertà di stampa.