di Antonella Sinopoli
Apre la lista Robert Mugabe – presidente dello Zimbabwe – che con i suoi 91 anni è il leader più anziano del mondo. Lo segue – nato solo qualche mese dopo, anche lui nel 1926 – il presidente della Tunisia, Beji Caid Essebsi. Ci sono poi: Paul Biya (Cameroon, 82); Ellen Johnson Sirleaf (Liberia, 80); Abdelaziz Bouteflika (Algeria, 78); Alpha Condé (Guinea, 75); Hage Geingob (Namibia, 74); Jacob Zuma (Sud Africa, 73); Teodoro Nguema (Guinea Equatoriale, 73). E poi, i più “giovani”, Eduardo dos Santos (Angola, 72) e Yoweri Museveni presidente dell’Uganda (71). Naturalmente, parliamo di presidenti in carica da decenni, alcuni grazie a modifiche costituzionali. Una sorta di “dittatura democratica”.
Sommato, il periodo di tempo trascorso al potere è pari a 392 anni, quasi 4 secoli con una media di anni in carica che va da 29 a 36 anni. Quasi due generazioni. L’analisi è presto fatta: un’ampia percentuale della popolazione africana non era ancora nata quando il loro leader (attuale) ha preso il potere.
Come ha fatto notare in un recente articolo il magazine Africa Watch, l’85% degli angolani non era nato quando Dos Santos divenne presidente nel 1979, l’83% degli abitanti dello Zimbabwe è nato successivamente all’investitura di Mugabe (arrivato al potere come primo ministro nel 1980) e il 79% degli ugandesi sono nati dopo il 1986, anno in cui Museveni è stato nominato presidente. Cosa vuol dire? Che solo tra il 15 e il 21% dei cittadini era già nato quando i loro presidenti (o in precedenza primi ministri) entravano in carica.
A parte la capacità intellettuale e fisica dovuta all’età – ricordiamo lo scivolone di Mugabe che è costato una dura reprimenda allo staff della sicurezza e il discorso in cui, pare a causa dello scambio di un foglio con un altro, sollecitava la caduta del suo stesso partito – cosa possono dire leader così anziani alle giovani generazioni? Leader nati in un altro secolo, leader ancora legati al linguaggio (e mentalità) delle lotte per l’indipendenza dal giogo coloniale. Leader con una visione più rivolta al passato – e alla conservazione del potere ovviamente – che al futuro.
Eppure l’Unione Africana aveva proclamato il 2009-2018 decennio della gioventù africana con l’obiettivo – tra gli altri – di coinvolgere i giovani nei processi decisionali e nelle attività politiche.
Con una popolazione totale del 65% al di sotto dei 35 anni, e del 35% tra i 15 e i 35 l’Africa è il continente più giovane e il trend non è destinato a scendere, anzi ad aumentare, grazie anche a migliori condizioni di vita, un maggior accesso ai servizi sanitari e alla costante urbanizzazione. Entro il 2020 su 4 cittadini, 3 saranno ventenni. Eppure…
Avidità di potere, macchinazioni politiche, pratiche di corruzione, relazioni commerciali e politiche interne e con poteri (politici ed economici) esteri: sono alcuni dei motivi che non lasciano spazio al cambiamento. Un altro tipo di analisi potrebbe soffermarsi sul ruolo di tali leader come “padri della nazione”, la cui esperienza e saggezza rimane fondamentale per la guida del loro Paese. Se così fosse – però – i Paesi guidati dagli ottuagenari dovrebbero avere economie e servizi sociali al top ma non sembra sia proprio così.
Il problema è che all’orizzonte non si intravede un’inversione di rotta. I fattori si intersecano e sono difficilmente divisibili l’uno dall’altro. Se manca una gioventù impegnata politicamente – e questo non è vero – è forte la dissuasione a lasciarsi coinvolgere e, soprattutto è ristrettissimo lo spazio lasciato a giovani emergenti e con aspirazioni politiche, spesso relegati a ruoli gregari come l’organizzazione dei rally pre-elettorali. In questo modo l’Africa dei giovani con una visione del futuro, dei giovani delle start-up, di quelli che navigano in Internet e comunicano con il mondo intero, rimane lontana dai luoghi del potere politico.
Il 2016 è un anno chiave per gli avvicendamenti di partito e di potere. In programma elezioni legislative, presidenziali, referendum e fasi pre-elettorali. Potrebbe essere un’occasione ma temiamo di non essere smentiti se diciamo che non rimarremo granché stupiti dai risultati.