Tra le notizie di cronaca che precedono la Giornata del migrante e del rifugiato spiccano i nomi di tre spagnoli: Julio Latorre, José Enrique e Manuel Blanco. L’edizione internazionale di El Pais li definisce rescue workers, sono uomini impegnati nei soccorsi ai gommoni di cartone che ogni giorno cercano di attraversare il mar Egeo dalla Turchia alla Grecia, all’Europa. La guardia costiera greca li ha fermati vicino le coste dell’isola di Lesbo all’alba di giovedì scorso, avevano appena soccorso un gommone carico di uomini donne e bambini e, come fanno ormai da mesi, li stavano portando a terra. Li hanno arrestati assieme ad altri due rescue workers danesi con l’accusa di traffico d esseri umani. La Giornata del migrante e del rifugiato hanno rischiato di trascorrerla in cella, se non fosse stato per una mobilitazione internazionale che ne ha determinato la scarcerazione nella serata di sabato. “È il più terribile, grottesco e terrificante segnale del cambiamento delle politiche europee”, scrivono i loro colleghi sui social network.
L’arresto dei tre rescue worker è un segnale preciso, un avvertimento all’imponente macchina del soccorso che ha portato centinaia di volontari da tutto il mondo sulle isole greche e sulle coste turche. Ognuno di quei volontari, da oggi, sa che può essere incriminato e arrestato. Chissà se fa parte della più ampia strategia di difesa dei “confini esterni” della fortezza europa avviata con la concessione di 3 miliardi di euro alla Turchia per “contenere i flussi di migranti”. Dalla fine di novembre, quando quell’accordo è stato firmato, la Jandarma turca ha arrestato migliaia di profughi che erano in attesa di imbarcarsi, ma nulla ha fatto contro i trafficanti che guadagnano milioni di euro ogni giorno. Di fatto lo sforzo poliziesco dei turchi non è servito affatto a “contenere i flussi”. È servito invece a mettere in carcere migliaia di uomini, donne e bambini e a rispedirne indietro molti di loro, anche siriani e afghani, contro tutte le leggi del diritto internazionale che garantisce protezione a chi scappa da paesi in guerra. Con la complicità dell’Europa. Dovrebbero servire a migliorare le condizioni di vita dei siriani in Turchia quei soldi, ma potremmo chiedere ad Ahmad cosa ne pensa. A quindici anni passerà la Giornata del migrante e del rifugiato nella sartoria dove lavora al nero dodici ore al giorno, sette giorni su sette, per 800 lire turche al mese (260 euro). Soldi che bastano appena a pagare l’affitto di un seminterrato dove vive con la sua famiglia ad Istanbul. Vengono da Aleppo, il padre è morto in un bombardamento. Ci sono due milioni 200 mila siriani in Turchia, la maggioranza di quelli che cercano una vita normale fuori dai campi profughi vive nelle stesse condizioni di Ahmad, da schiavo.
Alla vigilia della Giornata del migrante e del rifugiato spicca un’altra notizia: l’Austria annuncia la sospensione di Schengen, dice il primo ministro “se l’Ue non riesce a controllare le frontiere esterne, noi ripristiniamo i controlli”. L’Unione europea preferisce disfarsi piuttosto che affrontare un fenomeno complesso, ma governabile se a prevalere fosse una visione condivisa di accoglienza. La famosa relocation che stabiliva la redistribuzione in tutti i 28 stati membri di 160 mila rifugiati arrivati in Italia e Grecia, è fallita miseramente: gli ultimi dati forniti dall’Europa parlavano di appena 280 “rilocati”. “Condivisione delle responsabilità” diceva il documento siglato a settembre. Ma di condiviso in Europa c’è ben poco. Degli applausi che a settembre accoglievano i siriani alla stazione di Monaco non è rimasta neanche l’eco. Ora la parola d’ordine è porte chiuse, innalzamento di muri sui confini lungo la rotta dei balcani, e poi l’orrore della confisca dei beni preziosi ai rifugiati come fanno Danimarca e Svizzera.
Altre notizie di cronaca raccontano di un altro, ennesimo naufragio nelle stesse acque, nelle stesse ore in cui venivano arrestati i rescue workers. Quattro morti di cui tre bambini. Le statistiche dicono che nel Mediterraneo sono morte annegate quasi quattromila persone l’anno scorso, di cui settecento bambini, duecento di questi annegati nel braccio di mare tra la Turchia e la Grecia.
I racconti degli altri rescue workers dicono che all’isola di Lesbo in una sola notte tra le dieci di sera e le sette di mattina sono arrivate sei barche, 220 passeggeri, di cui 50 bambini. Numeri ordinari, ma è stata una notte più drammatica del solito. Scrive il team di Sirius.help: “il primo allarme è arrivato intorno alle 5 del mattino. La barca era gremita di gente esausta, tremante e di bambini in lacrime. Come successo altre volte, la guardia costiera turca per fermarli aveva tagliato il tubo del carburante e aveva abbandonato la barca alla deriva. La benzina si era riversata nella barca e tutti respiravano i fumi velenosi. Una donna al quinto mese di gravidanza si è sentita male e ha continuato a vomitare fin sulla riva. Dopo tre ore di lavoro un tecnico è riuscito a riparare il motore e ha ricondurre la barca a riva. Ecco come 30 minuti di viaggio sono diventati 5 ore di incubo con la paura di morire. Il 90 % delle persone nella barca erano siriani in fuga dalla guerra.”
Su un altro confine esterno d’Europa, a Lampedusa, alla vigilia della Giornata del migrante e del rifugiato si apre una porta santa. Il cardinale Montenegro pronuncia un’accusa precisa: “ormai l’acronimo UE significa Unione degli Egoismi”. Nei giorni scorsi Lampedusa è stata di nuovo teatro di proteste di eritrei che avevano paura di lasciare le impronte perché sanno che la relocation non è mai decollata e che il rischio di restare incastrati in Italia per via del regolamento di Dublino è più che fondato. Anche questo è un segnale del cambiamento delle politiche europee che apre gli hot spot dove la scelta tra accoglienza o respingimento è fondata sul paese di provenienza e non sulla storia personale di chi chiede asilo. Un sistema di accoglienza più attento a respingere che ad accogliere e che “non privilegia l’aspetto medico umanitario” come ha denunciato Medici Senza Frontiere lasciando l’hot spot di Pozzallo. Sono i diritti fondamentali che vengono messi da parte in nome della paura. E proprio da quell’isola dove inizia l’Europa arriva un appello alla solidarietà da parte di un sindaco coraggioso. Dice Giusi Nicolini: “A Lampedusa sperimentiamo ogni giorno questa verità, che se i diritti non sono di tutti non sono di nessuno”.
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