Franco Citti è uno di quei rari esempi di attore per caso che nacque ragazzo di strada e diventò grande, popolare, famoso senza mai accorgersene. Pur avendo recitato in film di successo, al fianco di registi straordinari come Pasolini, Fellini, Petri e Nocita, non perse mai quell’istinto di borgata e quella recitazione scarna, autentica, verace, istintiva e per questo profonda che avevano fatto la sua fortuna, in una sorta di neo-realismo sempre attuale, al pari della ruvidezza dei suoi personaggi e della graffiante tragicità delle storie che spesso lo vedevano protagonista.
Lo ricordiamo in “Accattone”, con la sua difficoltà a redimersi, la sua voglia di riscatto sconfitta, i suoi modi di fare spacconi ma anche la sua consapevolezza dell’insostenibilità di quella vita condotta ai margini, fra violenza e disprezzo, in una Roma ricca di contraddizioni e in bilico fra il boom dei quartieri alti e la straziante arretratezza delle periferie degradate.
Ricordiamo il suo sguardo, direi quasi la sua purezza, quel candore figlio della miseria e del tormento che colpì Pasolini al punto che trasformò Citti nell’icona delle sue denunce sociali, delle sue profezie sull’insostenibilità della società dei consumi e di un benessere artificioso e diseguale, del suo cinema capace di toccare le corde dell’anima e di indurre a riflettere senza mai annoiare, del suo puntare, per l’appunto, sulla spontaneità, sulla naturalezza, su volti levigati dalla fatica e dalla voglia di rinascere propria, in quegli anni, anche dei ceti sociali più umili e, soprattutto, della sua missione di illuminare le periferie e i luoghi già allora sconosciuti alla grande cronaca e ai riflettori di larga parte dell’informazione.
Franco Citti, per Pasolini, non è stato dunque un attore come gli altri: è stato il trionfo dell’umiltà, lo sguardo semplice e penetrante sul mondo, il disincanto ingenuo costretto a fare i conti con le asprezze della vita, la meraviglia e la resa di un ultimo divenuto celebre che non si è mai dimenticato delle proprie origini.
Oggi ne piangiamo la scomparsa, diciamo addio a un punto di riferimento del nostro cinema e del nostro panorama culturale e ci interroghiamo sulle tante maschere che recitano senza convinzione non solo davanti a una telecamera ma anche nella vita reale, anche di fronte ai problemi di tutti i giorni, anche in rapporti umani ormai sempre più meccanici, per non dire quasi assenti. E rimpiangiamo quel mondo che non esiste più con la nostalgia di chi, al cospetto delle tante favole amare di Pasolini, ha pensato che potesse esistere comunque un domani pure per i tanti Accattone della nostra società.
Senz’altro ci siamo illusi, senz’altro abbiamo perso anche noi, senz’altro ci sentiamo sempre più pervasi da un senso di solitudine e tristezza ma quanto meno le nostre lacrime rimarranno sincere, proprio come le interpretazioni di quel ragazzo che non aveva bisogno di recitare i suoi personaggi perché ce li aveva dentro di sé, dentro il suo cuore che ha smesso di battere e si è portato via per sempre l’ultima testimonianza di una stagione in cui qualcuno era ancora se stesso.