Raramente si è visto un momento più carico di tensione nei rapporti tra Potere e Informazione. Due vicenda giudiziarie notissime sembrano essere le fatali gocce che possono fare traboccare un vaso già colmo, da tanto tempo in Italia, un Paese in cui sembra che le forze recalcitranti, quelle che spingono costantemente verso una progressiva delegittimazione del ruolo dell’informazione, stiano per avere la meglio su più fronti.
Le vicende sono: quella denominata Vatileaks 2, che ha come protagonisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, alle prese con la giustizia vaticana, e quella del giornalista Francesco Viviano, redattore del quotidiano “La Repubblica”, condannato a dicembre 2015 dal Tribunale di Lecce a un anno di reclusione in quanto ritenuto responsabile di sottrazione di “documenti custoditi in un pubblico ufficio”,
Assistiamo a una pericolosa polarizzazione degli organi di informazione. Molte piccole testate falliscono una dopo l’altra, sotto il peso della crisi o delle querele temerarie. Gli accordi sindacali per tutelare i collaboratori esterni dei giornali, anche di quelli on-line, sembrano dividere coloro che siedono al tavolo delle trattative, determinando una intollerabile situazione di stallo. La legge di riforma sulla diffamazione è diventata una tela di Penelope: ogni volta che sembra giungere al traguardo qualcuno ci infila nuove norme sulle intercettazioni che, se da un lato, la rendono più gradita alla politica, dall’altro hanno un effetto demolitorio del diritto di cronaca giudiziaria e del corrispettivo diritto della collettività di conoscere l’evoluzione delle grandi inchieste giudiziarie che, piaccia o no, da Tangentopoli in poi hanno influenzato non poco la nostra storia politica, economica e sociale.
Ciò detto, la nostra personale opinione è che le vicende di Nuzzi, Fittipaldi e Viviano non siano completamente dentro il complicato contesto appena descritto.
A ben guardare le loro vicende solo apparentemente si inseriscono nella difficile dialettica tra Potere e Informazione. Si è detto da più parti che la condanna di Viviano e il processo a Nuzzi e Fittipaldi costituisca l’ennesimo grave attacco alla libertà di stampa, perché nel loro caso si processerebbe la funzione stessa del giornalismo, che è quella di pubblicare notizie di interesse pubblico, indipendentemente dalla segretezza del materiale di cui dispone il giornalista.
Il principio ci trova assolutamente d’accordo. Pensiamo che le notizie, se sono segrete, devono essere tutelate e ben custodite da chi è preposto, normalmente un pubblico ufficiale, alla conservazione del segreto e della riservatezza. Ma nel momento in cui questo “presidio” viola i suoi doveri e la stampa viene in possesso di materiale confidenziale, riteniamo che sia assolutamente ingiusto ricercare il capro espiatorio negli organi di informazione che, pubblicando, hanno fatto semplicemente il loro lavoro.
Venendo, quindi, al nocciolo della questione, evidenziamo come nel caso di Nuzzi, Fittipaldi nonché nel caso di Viviano sembra esserci qualche cosa di più.
Ed infatti, agli stessi non viene contestata (soltanto) la illecita pubblicazione delle notizie, ma viene contestata l’illecita sottrazione dei documenti, che è circostanza diversa e che esula, appunto, dalla discussione circa la libertà di stampa ed il diritto di cronaca.
A Viviano, infatti, sarebbe stato contestato l’art 351 cp che così recita: Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora corpi di reato atti, documenti, ovvero un’altra cosa mobile particolarmente custodita in un pubblico ufficio, o presso un pubblico ufficiale o un impiegato che presti un pubblico servizio, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione da uno a cinque anni.
Il giornalista, dunque, (che è doveroso ricordarlo ha sempre negato di aver sottratto alcunché) sarebbe stato punito non già per aver pubblicato atti coperti dal segreto istruttorio (e questa, come detto, appare come condotta del tutto naturale per un giornalista, perché non è allo stesso che può richiedersi la tutela del segreto), ma per avere egli stesso sottratto materiale custodito.
La stessa imputazione, con le dovute differenze procedurali e sostanziali che derivano dalla circostanza che si applica l’ordinamento giuridico di un altro Stato (quello della Città del Vaticano, appunto), è stata contestata ai giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, i quali sono accusati di avere essi stessi sottratto documenti segreti, e non soltanto dunque di averli pubblicati.
A questo punto c’è una considerazione che riteniamo di dover fare: anzitutto, non può non vedersi come diverso sia il caso in cui un giornalista ottenga da altri documenti sottratti rispetto a quello in cui il giornalista sottragga egli stesso il documento: nel primo caso, infatti, il giornalista, indipendentemente da un eventuale (ed invero assai improbabile) concorso nella condotta delittuosa di sottrazione, avrebbe quasi l’obbligo deontologico di pubblicare ciò di cui è in possesso, poiché se non lo facesse rischierebbe di divenire una sorta di ricattatore essendo in possesso di materiale non pubblicato.
Una ulteriore considerazione deve farsi circa la segretezza degli atti: non sarebbe corretto sostenere, come pure nel dibattito che è seguito alla vicenda si è fatto, che nel nostro ordinamento, al di là della sottrazione di cui all’art. 351, non vi sarebbero atti segreti e di cui è vietata la divulgazione: ed infatti, il nostro codice penale, all’art. 326 punisce la condotta di chi rivela segreti di ufficio.
Dunque, anche il nostro ordinamento prevede l’esistenza di atti di cui non deve esserne data divulgazione, neanche se ciò avviene in nome della libertà di stampa.
La differenza, probabilmente, con l’ordinamento dello Stato del Vaticano risiede nella circostanza che il nostro ordinamento vieta tale divulgazione a tutela della buona amministrazione della Giustizia e non già a tutela di interessi politici ovvero di altro genere.
ADP VV