E se a meritare d’essere licenziato senza diritto d’appello (“You’re fired!”) fosse proprio Donald Trump? Cosa succederebbe, se si scoprissero delle macchie nel cursus honorum imprenditoriale del supposto genio del business, che garantisce di esser in grado di condurre la sua intera nazione verso la ricchezza e la prosperità proprio come ha saputo fare con le sue aziende?
Nell’ottobre del 1988, l’allora quarantaduenne enfant prodige del mercato a stelle e strisce dilapidò qualcosa come 365 milioni di dollari per comprare una flotta di 17 boeing 727s: l’obiettivo era rilevare una compagnia aerea decotta e rivitalizzarla applicando il miracoloso “Trump touch”: rivestimenti interni in legno d’acero, cinture di sicurezza con fibbie cromate, rifiniture dei bagni laccati d’oro. Ma quegli zotici degli statunitensi, insensibili alla bellezza, non dovettero apprezzare troppo, se quattro anni dopo l’avveniristica società Trump Shuttle cessò d’esistere. Deluso ma non rassegnato, in tempi più recenti il Nostro decise di puntare sugli alcolici. Diversificare o morire. “Successo distillato”, era lo slogan scelto nel 2006 per lanciare la Trump Vodka (etichettata, ça va sans dire, con la dicitura “premium quality”), destinata a “a provocare lo stesso stupore” suscitato dal “brand di Donald Trump stesso”. Queste, almeno, erano le incrollabili convinzioni dell’attuale candidato alla Casa Bianca, certissimo di scalzare in poco tempo quei sopravvalutati della Grey Goose. Chissà poi quale sciagurata congiunzione astrale ha provocato la prematura scomparsa dagli scaffali della Trump Vodka.
Ora, si dirà – e infatti Trump lo dice spesso – che la bancarotta, nella carriera di un imprenditore, non costituisce una rovina totale: rientra nei rischi del mestiere, ogni tanto, azzardare. Peccato che gli azzardi non sempre finiscano bene: neppure quelli di Trump, come ha rivelato il Times l’aprile scorso. Nel febbraio 2009, la società Trump Entertainment Resorts collezionò tre bancarotte di fila relative ai tre casinò che ricadevano sotto la sua amministrazione. L’impavido Donald, tutto d’un pezzo, dichiarò la sua assoluta estraneità alla faccenda: “Non ho nulla a che fare con quella società, a parte il fatto che porta il mio nome”. Ecco, viene da pensare che questo è esattamente quel genere di scappatoie che uno statista non può permettersi, neppure se ha un passato glorioso da manager. Ce lo vedete, voi, un primo ministro che, messo di fronte all’evidenza dei suoi insuccessi politici, si giustificasse dicendo che i suoi governi, pur essendo diretti da lui, hanno fallito per cause che nulla hanno a che fare con la sue responsabilità personali, accampando scuse come – che so – la recrudescenza del comunismo, o una rete di complotti pluto-massonico-internazionali? Suvvia, siamo seri: chi lo voterebbe, uno così?