E’ in Parlamento dal 2013. Da ottobre 2014 è al Senato in Commissione Giustizia. E ora la depenalizzazione dell’ingiuria allungherà i tempi
Ci sembra opportuno fare il punto sull’iter del disegno di legge sulla diffamazione a mezzo stampa presentato a maggio del 2013, del quale da tempo non si hanno notizie.
Quel disegno di legge non è stato ancora approvato. Eppure era nato per abolire in quattro e quattr’otto la pena del carcere, che rende scandalosa la situazione italiana e ha costretto più volte i Presidenti della Repubblica a concedere la grazia ai condannati, per salvare così l’onore dell’Italia dai paragoni con i paesi autoritari.
Da tempo il progetto di legge si trascina stancamente fra un ramo e l’altro del Parlamento. E intanto la legge e le sentenze che applicano la pena della reclusione fanno inesorabilmente il loro corso: sono almeno 18 i giornalisti condannati a pene detentive fra ottobre 2011 e giugno 2015, per complessivi 30 anni di carcere, come ha segnalato a luglio del 2015 un dossier di Ossigeno . Ce lo ha ricordato, da ultimo, il 21 gennaio 2016, la sentenza del Tribunale di Trapani che ha comminato un anno di carcere a un giornalista.
A ottobre del 2014, il disegno di legge fu modificato, in seconda lettura, dalla Camera dei Deputati e trasmesso al Senato. A Palazzo Madama l’esame ha avuto inizio a giugno del 2015. Il 9 settembre 2015 la senatrice Rosanna Filippin ha svolto la relazione sul testo modificato dalla Camera. Dopo di allora non è accaduto più nulla ed è sceso il silenzio.
Intanto, giovedì 21 gennaio 2015 è cambiato il presidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama. Il senatore Nitto Palma (Forza Italia) è stato sostituito dal senatore Nico D’Ascola, centrista. Non si sa quale linea il nuovo presidente vorrà adottare, anche relativamente alla nuova disciplina della diffamazione e dell’ingiuria, quest’ultima soggetta a una recente innovazione legislativa che renderà comunque obbligatorio il ritorno del disegno di legge alla Camera (sarà la quarta lettura).
L’innovazione è la seguente. Il 15 gennaio 2015 il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva un decreto legislativo che ha opportunamente depenalizzato e trasformato in illeciti civili una serie di reati. Fra questi, il reato di ingiuria, previsto dall’articolo 594 del Codice Penale. L’ingiuria dunque non sarà più un reato. Ma per il reato di ingiuria il disegno di legge all’esame del Senato prevede, fra l’altro, l’abrogazione della pena detentiva e l’introduzione di una multa fino a 5000 euro. Prevede che la pena sia aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato o se è stata commessa in presenza di più persone. Dunque, il testo dovrà essere corretto e questa correzione dovrà essere sottoposta anche alla Camera. Ciò, dunque, spinge il traguardo ancora più avanti e apre la strada a ulteriori correzioni. Ma dà anche l’idea di un modo disordinato di procedere.
Ci poniamo una semplice domanda: perché il governo ha depenalizzato l’ingiuria e non anche la diffamazione, come sollecitano da tempo le istituzioni internazionali? Sono entrambi reati contro la persona: l’ingiuria contro l’onore, la diffamazione contro la reputazione. L’elemento che distingue le due fattispecie è che nel caso dell’ingiuria l’offesa è recata in presenza della persona offesa, nel caso della diffamazione in sua assenza.
Era dunque una buona occasione per procedere alla depenalizzazione della diffamazione (di quella semplice e di quella a mezzo stampa), così come chiedono da anni le organizzazioni e le istituzioni europee e internazionali. E’ chiaro che ciò non è frutto di una distrazione o di una dimenticanza, ma di una precisa scelta politica nella regolazione del rapporto tra informazione e poteri.
Il messaggio è chiaro: si preferisce lasciar pendere una spada di Damocle sul giornalismo. Il cronista che tratta notizie delicate e controverse deve sapere che se sbaglia rischia l’incriminazione per un reato punito con estrema severità. Anche se alla fine abolirà il carcere, la legge attualmente all’esame del Parlamento consentirà di applicare pene pecuniarie molto pesanti, al punto da provocare la chiusura di una testata medio-piccola, come dimostra il caso rivelatore della Voce delle Voci . Rimarrebbero livelli di risarcimento che non tengono conto delle capacità economiche dei giornalisti e degli editori colpevoli, nonostante la Corte europea dei diritti umani abbia ripetutamente chiesto di evitarlo per prevenire un effetto negativo sulla libertà di stampa, sulla raccolta e sulla diffusione delle informazioni, in definitiva sul diritto di informare e di essere informati, sul pluralismo reale delle fonti di informazione.
Quando si comincerà a discutere di queste cose tenendo nel giusto conto tutti i diritti in gioco?
GFM