Si possono condurre ancora inchieste sui veleni che inquinano la nostra vita e anche i nostri piatti? La domanda sorge spontanea nel constatare la virulenza con la quale vengono accolte le inchieste e le trasmissioni, poche per altro, che “osano” affrontare il tema senza chiedere il preventivo lasciapassare agli interessi, forti anzi fortissimi, che dominano il comparto.
Dal momento che molti dei marchi del settore alimentare sono tra i principali investitori pubblicitari nel sistema dei media, non occorre una grande fantasia per comprendere la loro capacità di influenza e di pressione.
In questi giorni, per fare un solo esempio, sono arrivate due denunce nei confronti delle inchieste di Alessandro Gaeta, giornalista preparato e dalla lunga esperienza professionale, attualmente impegnato nella redazione degli Speciali del TG1, coordinati da Maria Luisa Busi, una professionista che ha segnato alcune delle migliori pagine del servizio pubblico.
Prima Paolo Barilla, presidente dello specifico settore di Confindustria, ha contestato l’inchiesta “Veleni nel piatto”; poi la società Milano ristorazione ha annunciato una delle tante “querele temerarie” che, quotidianamente, vengono scagliate contro questo o quel cronista.
Nel merito se ne occuperanno i rispettivi legali, e non ci interessano neppure difese corporative, perché ciascun cittadino ha il diritto di chiedere il diritto alla replica, alla rettifica e alla tutela della propria immagine e dignità. Quello che sorprende è l’estrema sensibilità che scatta quando si affrontano temi come la raccolta dei rifiuti, la tutela della salute, la qualità dell’aria e del cibo.
Nelle due inchieste è stata data la parola ai migliori ricercatori del settore, sono stati citati dati di laboratorio e rapporti internazionali, sono state raccolte anche le voci di genitori e di cittadini preoccupati. Del resto come dimenticare l’accoglienza, sempre negativa, riservata nel passato alle inchieste che svelavano rischi potenziali per r la salute individuale e collettiva?
Una sequela iniziata molti anni orsono, quando le industrie del settore alimentare chiesero a gran voce la chiusura della trasmissione “Di Tasca nostra”, coordinata da Tito Cortese, e ritenuta ” Antinazionale, contraria agli interessi del Made in Italy, allarmistica, frutto di una cultura antimoderna ed estremistica..”.
Le stesse parole, ieri come oggi. Eppure basta guardare i palinsesti della tv, pubblica e privata, per scoprire che quasi tutte le trasmissioni dedicate al cibo sono infarcite di rappresentanti dell’industria, di fieri sostenitori delle loro ragioni, di medici e scienziati privi di qualsiasi dubbio. Perché mai, in questi casi, non si invoca la “par condicio tradita”, non si chiede la pluralità dei punti di vista, non si denuncia l’assenza delle tante posizioni che animano il dibattito nella comunità scientifica, medica, e nello stesso associazionismo dei consumatori?
Chiunque conosca la programmazione complessiva potrà notare come le voci raccolte da Alessandro Gaeta, o per fare un altro esempio, da Riccardo Iacona e da Milena Gabanelli, non abbiano mai avuto la possibilità, in altri contesti di potersi esprimere.
Se davvero si vuole affrontare il tema del rapporto tra informazione e salute pubblica sarà il caso di farlo davvero, senza scorciatoie disciplinari, senza minacciare querele, senza tentare di espellere dal dibattito e dalla rappresentazione quello che non piace a ciascuna delle parti in causa. Un’ultima annotazione riguarda la scelta di Paolo Barilla di indirizzare la sua lettera non solo, come è giusto, al direttore del Tg1 Mario Orfeo e ai competenti organismi aziendali, ma anche al presidente del consiglio Renzi.
Perché mai? Forse la Rai è una agenzia del governo? Esiste un rapporto di dipendenza e di subordinazione editoriale? Quell’indirizzo è sbagliato, quando si invocano correttezza e stile, sarebbe il caso di evitare queste cadute che contribuiscono a determinare un “autodanno di immagine”.