Si racconta che un giorno di fine anno del 1982, passeggiando in carcere, dove era detenuto, Mariano Agate, capo mafia defunto di recente, passando davanti alle celle, con il suo noto fare spocchioso, annunciò, “Ciaccinu arrivau a stazione”. Agate parlò con quel suo modo di fare, lo stesso usato quando da una cella del Tribunale di Trapani, dove era processato per il delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, mandò a dire a Mauro Rostagno, il giornalista poi ucciso nel 1988, di non dire “minchiate” sul suo conto. Ecco in quello stesso modo Mariano Agate quel giorno di fine anno del 1982 fece sapere a tutti i suoi compari con lui in carcere, che “Ciaccinu arrivau a stazione”.
“Ciaccinu” era il sostituto procuratopre di Trapani Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Nella notte del 25 gennaio 1983 Ciaccio Montalto fu ucciso davanti casa sua a Valderice. “Ciaccinu arrivau a stazione” è la frase centrale di questa storia che però per tantissimi anni è rimasta nascosta, come spesso è accaduto , e accade, per altre analoghe triste vicende. Per decenni a Trapani il nome di Ciaccio Montalto è rimasto o non pronunciato o mal pronunciato, tranne in quelle rare occasioni in cui per iniziativa di pochi, amici, un paio di suoi colleghi, attivisti e volontari delle associazioni antimafia, il nome di Ciaccio Montalto è stato adeguatamente ricordato, per poi sparire di nuovo.
Non è stata nemmeno sufficiente a sollecitare la sempre distratta città di Trapani la sentenza di condanna all’ergastolo, arrivata con anni di ritardo, per i capi mafia, Totò Riina e Mariano Agate, per l’appunto, quali mandanti del delitto. Quel delitto fu cosa di mafia e invece per anni la città di Trapani c’è stato chi si è parecchio impegnato a far credere che Ciaccio Montalto era stato ucciso per altro, addirittura anche per motivazioni poco nobili. Anche in questo la “regia” della mafia. In questi anni Cosa nostra ha sempre trovato il modo giusto di “mascariare” qualcuno o qualcosa, la vittima, il delitto, un avvertimento, per sfuggire ad ogni colpa. Sopratutto quando le vittime avevano fatto o stavano per far danno assai alla mafia. Gian Giacomo Ciaccio Montalto quando fu ammazzato era in procinto di trasferirsi alla Procura di Firenze, successive indagini hanno dimostrato come in Toscana la cupola, e quella trapanese aveva già i suoi uomini, non solo “picciotti” ma anche “colletti bianchi” come verrebbero chiamati oggi, professionisti, uomini di banca, imprenditori. Ciaccio Montalto è stato ammazzato per avere toccato direttamente il clan Riina. Fu suo uno dei primi provvedimenti di arresto che colpirono Gaetano Riina, detto “u nano”, fratello del più celebre “Totò u curtu”.
Ciaccio Montalto aveva scoperto gli interessi in terra di Toscana della mafia cortonese e trapanese insieme. E da pm a Firenze insomma era pronto a muoversi. Ma il movente del delitto sta anche in altro. Ciaccio Montalto fu ucciso quando era arrivato al cosidetto “terzo livello”, la pista che stava seguendo era quella dei soldi, dei beni, quando entrò in vigore alla fine del 1982 la legge Rognoni-La Torre sul sequestro e la confisca dei beni alla mafia, Gian Giacomo Ciaccio Montalto seguendo altri percorsi giudiziari era arrivato a mettere mani su alcuni beni mafiosi. Fu ucciso e poi “mascariato” Gian Giacomo Ciaccio Montalto e quel “Ciaccinu arrivau a stazione”, pronunciata da Agate che da Ciaccio Montalto era stato messo in riga in occasione di una indagine su pressioni subite da agenti penitenziari da parte di mafiosi detenuti, e che doveva essere la frase centrale per spiegare presto quell’omicidio, è rimasta sepolta per decenni. La mafia di quegli anni è la stessa di quella di oggi, la mafia non spara più ma sa mascariare meglio di prima, sa bene inquinare per essersi oltremodo infiltrata nelle istituzioni, nell’impresa, nelle banche doive c’era già ai tempi di Ciaccio Montalto, che era andato a bussare alla porta di alcune di queste prendendosi e portandosi in ufficio gli assegni dei boss, i guadagni dei traffici di droga, delle raffinerie di eroina impiantate nel trapanese…degli appalti.
La mafia che uccise Ciaccio Montalto è la stessa che oggi potente sa bene proteggere il suo nuovo capo che si chiama Matteo Messina Denaro e che i complici adorano come un dio, professionisti e uomini delle istituzioni. La storia di Gian Giacomo Ciaccio Montalto è facile da raccontare, basta sfogliare le pagine delle indagini da lui dirette, l’inquinamento del golfo di Cofano, uno dei più belli paesaggi della Sicilia messo a rischio dagli scarichi illegali e anche dal tentativo di costruire qui negli anni ’70 una raffineria di petrolio che era sponsorizzata dalle famiglie mafiose locali e al solito da qualche incosciente, e colluso, sindaco, c’erano poi le inchieste sui soldi sporchi nelle banche, gli appalti truccati e le speculazioni edilizie, il “sacco” del Belice, la droga e le raffinerie dell’eroina, i traffici di armi. Tutto questo era Cosa nostra, lo sapeva Gian Giacomo Ciaccio Montalto ma nel 1983 la mafia a Trapani, ma non solo a Trapani, per i più non esisteva. Oggi non ricordiamo una persona scomparsa, Ciaccio Montalto non è morto, è vivo. Perché se è vero come è vero che restano come restano attuali le sue indagini, e se queste indagini dunque sono vive, e allora il protagonista che le aveva avviate non può essere morto è ancora vivo, vive in altri che seguono il suo lavoro. E si trovano dinanzi una mafia che pretende di restare inviolabile come pretendeva esserlo in quegli anni ’80, gli uomini che la comandano, che l’aiutano, restano gli stessi di allora, i cognomi si ripetono dall’83 ad oggi, dall’83 ad oggi si ripetono anche nomi e cognomi di responsabili morali se non materiali delle commistioni mafiose.
La storia di Gian Giacomo Ciaccio Montalto sta nelle pagine delle sue indagini, nel fatto di essersi dovuto allontanare dalla famiglia forse per salvaguardare i suoi familiari perché prima di essere ucciso puntuali erano arrivate a casa sua minacce di morte, continuate contro i familiari dopo il delitto tanto da costringere quella vedova con le sue giovanissime figlie a lasciare Trapani. Il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, Rocco Chinnici, intervistato da Lillo Venezia per “I Siciliani” ricordò l’esistenza di un’auto blindata non usata a Trapani, altri testimoni, come il grande giornalista Vincenzo Vasile ci hanno spesso ricordato di quando sempre Rocco Chinnici svelò che per Ciaccio Montalto c’era un posto nel pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, assieme a Falcone e Borsellino. Troppo pericoloso per la mafia era Gian Giacomo Ciaccio Montalto, inavvicinabile mentre qualche suo collega della porta accanto con i mafiosi si accordava. Scene che si ripetono ancora oggi, nei Palazzi di Giustizia c’è chi lavora e chi lavora per fermare il lavoro dei colleghi.
Non si può ricordare Giangiacomo Ciaccio Montalto senza far cenno ai molti suoi interessi culturali, che con tanta forza manifestava avendo una speciale capacità di coinvolgimento e di trasmettere agli altri i suoi entusiasmi: la passione per certi scrittori, da Eco, allora poco famoso, a Tomasi di Lampedusa, a Marquez ; la sua venerazione per Beethoven, l’amore per la lirica , per Bellini, quello affettuoso per Verdi insolitamente collegato ad un notevole apprezzamento per Wagner, le predilezioni per alcuni interpreti da quelli famosi quali Toscanini, Cortot, Richter, Ghilels, la amatissima Callas, ad altri quali Pollini e Daniel Rivera, percepiti subito come grandi da Giacomo con straordinaria sensibilità e consacrati tali negli anni successivi alla sua morte , le passioni più popolari per la canzone napoletana d’autore, per le nostre tradizioni gastronomiche, per il mare che con il candido coraggio che lo distingueva, solcò facendo viaggi ardimentosi pur quando all’inizio della sua esperienza nautica, aveva una pratica limitata”. “Le sue giornate erano scandite dalla musica – ricorda il procuratore aggiunto della Dda di Palermo Dino Petralia – il suo sguardo rivolto verso l’infinito azzurro del mare, ma il suo impegno giornaliero si manifestava nell’esame curioso e acuto delle carte processuali, con l’ostinata determinazione di chi sa che la Sicilia potrà guadagnarsi una dignità solo liberandosi dall’asservimento ai poteri criminali. Una consapevolezza molto più forte di quella di tutti noi che gli lavoravamo accanto; vissuta, in certi momenti, talvolta innanzi ad esiti investigativi non sempre soddisfacenti, come vera e propria sofferenza. Anche lui ucciso, come molti altri in Sicilia, per avere fatto semplicemente il suo dovere, ma probabilmente il “semplicemente” non si addice alla storia ed ai tormenti della Sicilia”.