Solo la sorpresa, il rimpianto e il dolore sincero per la scomparsa di David Bowie ieri ci hanno fatto trascurare un anniversario. L’11 gennaio del 1999, dunque diciassette anni fa, moriva Fabrizio De Andrè. Il poeta non allineato, l’uomo e l’artista sempre dalla parte degli ultimi, delle minoranze, che aveva combattuto contro ogni convenzione, con un linguaggio ironico e dissacrante.
Sembra ieri, anche perchè la sua opera è qui, è viva, rimane a darci conforto, a indicarci una via, non perde di forza e di attualità. Faber era – rimane – il nostro amico fragile, il cantore degli oppressi e degli emarginati, il fustigatore sottile e lucido dei potenti, l’anticipatore della miglior musica etnica.
La sua vita, la sua storia comincia il 18 febbraio del 1940. La famiglia De Andrè vive a Genova, zona Pegli, quartiere della Foce, al numero 13 di un palazzo borghese di via Trieste. C’è già un figlio maschio, Mauro, più grande di Fabrizio di quattro anni (diventerà uno stimato avvocato, anche lui morto prematuramente, nell’89, a cinquantatre anni), e dunque in casa si aspetta una bambina. Ma arriva lui.
Famiglia colta, benestante, classica buona borghesia genovese, che sa unire solido patrimonio (padre alto dirigente dell’Eridania) e ottime letture. Durante la guerra si trasferiscono per un lungo periodo nella villa di famiglia, a Revignano d’Asti. Lì il piccolo Fabrizio impara ad amare la natura, la campagna, gli animali, il lavoro di contadino. Amore che da adulto, con la seconda moglie Dori Ghezzi, non gli farà abbandonare la fattoria in Sardegna (con gli anni trasformata in una vera e propria azienda agricola) neanche dopo la tragica esperienza del rapimento nel ’79: più di cento notti all’«Hotel Supramonte», che poi sarebbe diventato titolo di una canzone ispirata a quelle catene, a quel tetto di cielo stellato.
Ma torniamo alle origini. Nel dopoguerra ritroviamo De Andrè studente svogliato, che si iscrive al liceo Cristoforo Colombo. La sua vera passione era però la musica. Ascolta i francesi, soprattutto Brel e Brassens, si veste tutto di nero come gli esistenzialisti dell’epoca, comincia a suonicchiare come chitarrista jazz, in omaggio al suo idolo Jim Hall, in una band in cui c’è anche Luigi Tenco al sassofono. Ma poi è anche nei Crazy Cowboys, una country band genovese che suona alle feste studentesche.
Il primo disco di colui che inizialmente si fa chiamare semplicemente Fabrizio esce nel ’58, come si usa all’epoca è un 45 giri, s’intitola «Nuvole barocche». Ma di quel diciottenne dall’aria ispirata si accorgono davvero in pochi. Anche perchè l’Italia ha già i suoi problemi ad accettare la rivoluzione di Modugno, che al Sanremo di quell’anno spalanca le braccia e intona «Volare». Figuriamoci questo De Andrè, ostico, troppo in anticipo sui tempi, rispetto a un panorama canoro ancora dominato dalle rime obbligate «cuore amore» e dalla struttura dei brani «strofa strofa, ritornello strofa».
Ma De Andrè è giovane, non ha fretta, sa aspettare. Frequenta senza troppo entusiasmo l’università: prima medicina, poi lettere, infine giurisprudenza, mollata a due esami dalla laurea. Frequenta soprattutto, per la comune passione musicale, i soliti amici: Paolo Villaggio (amico d’infanzia, le rispettive famiglie passavano le vacanze assieme), Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, il citato Tenco, pochi altri.
Con Villaggio, ancora lontano dai sogni di gloria con la saga dei Fracchia e dei Fantozzi, scrive la goliardica «Carlo Martello». Che viene denunciata all’autorità giudiziaria nientemeno che per linguaggio osceno. Tutto per colpa di quel passaggio in cui l’apparentemente casta contadinella cede alle voglie del bramoso re, che poi si accorge di essersi in realtà intrattenuto con una prostituta. E sbotta: «Ma è mai possibile, corpo di un cane, che le avventura in codesto reame debbano concludersi tutte con grandi puttane…». Lo scandalo è annesso.
Nel ’65 il nostro – che nel frattempo sposa Enrica «Puny» Rignon, nel ’63 nasce Cristiano – firma «La canzone di Marinella», quasi una favola poetica che racconta di come una fanciulla, tornando a casa dopo la prima esperienza d’amore, fosse scivolata nel fiume, annegando. «E lui che non la volle creder morta, bussò cent’anni ancora alla sua porta…».
La canzone era nata da un fatto di cronaca: una prostituta (figura ricorrente della poetica di Faber: si pensi anche a «Bocca di rosa», secondo alcune ricostruzioni ispirata a una ragazza istriana che era partita proprio da Trieste per conoscerlo…) era stata scippata e buttata nel fiume. De Andrè trasforma l’episodio in poesia delicata, struggente. E Mina, al culmine della popolarità, ne regala una versione memorabile e la porta al successo. Consacrando di riflesso anche l’autore.
Poi le cose vanno veloci. Nel ’66 esce il primo album, intitolato «Tutto Fabrizio De Andrè», una raccolta delle canzoni scritte fino a quel momento. Nell’Italia che sta per conoscere una stagione di grandi cambiamenti, De Andrè si fa una fama «proibita»: è quello che infila le parolacce nelle canzoni, viene ascoltato dai liceali a volume basso, rigorosamente fuori dalla portata dei genitori. Ma è anche quello che racconta storie, suscita emozioni e sensazioni che fino ad allora sembravano monopolio della letteratura, della poesia.
Album come «Volume I», «Tutti morimmo a stento» (ispirato alle poesie di Francois Villon), «La buona novella», «Non al denaro non all’amore nè al cielo» (con l’antologia di «Spoon river» rivisitata a quattro mani con Fernanda Pivano) e «Storia di un impiegato» punteggiano, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, un percorso artistico che trasforma di certo la canzone ma tutto sommato anche il costume e la cultura italiana.
Segue la stagione dei concerti (e dei dischi dal vivo) con la Pfm, che nel ’78 riveste per la prima volta di suoni elettrici canzoni che spesso il pubblico era abituato a sentire chitarra e voce. Ma anche dell’amore per la musica etnica e della riscoperta del dialetto genovese, della collaborazione con Mauro Pagani e con Massimo Bubola, con Francesco De Gregori («Canzoni», uscito nel ’74) e con Ivano Fossati.
Fino a capolavori assoluti come «Creuza de ma» (il miglior disco degli anni Ottanta, amato anche da David Byrne) e «Nuvole», che parte da Aristofane e allude ai «potenti che oscurano il sole». Per finire con «Anime salve», ultimo sguardo sull’umanità marginale, ultimo album di Fabrizio De Andrè prima della raccolta «Mi innamoravo di tutto», con «La canzone di Marinella» in duetto con Mina.
Fin qui l’opera, ancora così presente e attuale. Ecco, oggi rimane un senso di perdita per quello che Fabrizio avrebbe potuto scrivere e cantare in questi anni che son passati senza di lui e nei prossimi. Ci manca sentire come avrebbe raccontato lui, questi tempi scassati.
Disse una volta: «Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per la giustizia sociale e l’illusione di poter partecipare a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane…».
Ci mancano allora le parole con cui Fabrizio De Andrè (Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999) lo avrebbe raccontato, questo cambiamento del mondo. Purtroppo peggiore di quello che lui aveva cantato.