Un anno fa fu il caso Tavecchio a fare scalpore, oggi è la volta delle frasi omofobe e razziste di Sarri e De Rossi. Ma il problema prima che di assenza di regole è culturale. Valeri: “C’è una doppia morale quando si parla di calcio: si è prima tifosi e poi antirazzisti. E a farne le spese sono i più giovani”
ROMA – Un anno fa furono le frasi di Carlo Tavecchio, presidente della Figc, sui giocatori africani “mangia banane” a sollevare il caso degli insulti razzisti nel calcio. In questi giorni il dibattito si è riacceso dopo le parole omofobe (“frocio”, “finocchio”) rivolte dall’allenatore del Napoli Maurizio Sarri al collega dell’Inter Roberto Mancini e dopo una frase, ripresa dalle telecamere, pronunciata da Daniele De Rossi (difensore della Roma) verso il giocatore juventino Mario Mandzukic: “muto, zingaro di m…”. Anche questa volta ci si è divisi tra innocentisti, sostenitori del “nervosismo” in campo che assolverebbe giocatori e allenatori dal pronunciare frasi deprecabili, e interventisti che invocano la giustizia sportiva e qualche giornata di squalifica. Nei fatti, però, tanto rumore per nulla: all’interno del movimento sportivo nessuno sta pensando veramente di affrontare il problema. Così il razzismo e l’omofobia sui campi da calcio restano, e stanno diventando sempre più un fenomeno preoccupante, soprattutto nei campionati minori dove non è raro sentir gridare “negro”, “zingaro”, contro i figli degli stranieri che decidono di diventare calciatori o arbitri.
Cresce il razzismo nei campionati delle serie minori. Anche per questo, quello di questi giorni è un dibattito “ipocrita” secondo Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo nel calcio, che al tema ha dedicato anche diversi libri (“Che razza di tifo”, “Mario Balotelli, vincitore nel pallone”, “Campioni d’Italia? Le seconde generazioni e lo sport”). “La stampa sta facendo molto clamore su questi ultimi episodi, sapendo però che di fatto non sono punibili dal codice della giustizia sportiva – spiega – . Il caso è da prima pagina, ma nessuno parla della necessità di inserire modifiche al codice, ad esempio nell’articolo 11 del regolamento Figc, inserendo l’omofobia come atto grave di discriminazione. Invece di una chiara presa di posizione si chiede a Sarri di partecipare a manifestazioni per l’orgoglio omosessuale. E’ chiaro che questo è solo un modo per non intervenire”. Stesso accade per il caso De Rossi, il cui insulto non sarà sanzionato perché secondo la giustizia sportiva non rientra nella casistica di competenza della procura (di cui fanno parte solo gli atti violenti che contribuiscono a modificare il risultato del campo o le bestemmie) ma dell’arbitro. “La parola ‘zingaro’ viene tendenzialmente punita, soprattutto quando a usarla sono le curve nei loro cori – spiega Valeri – ma non è prevista la prova tv in campo per gli insulti discriminatori. Questo è un paradosso su cui non si pensa di intervenire. Il problema però rimane: soprattutto nei tornei giovanili dove il razzismo sta aumentano. Dal momento che ci sono sempre più ragazzi, figli di immigrati, che giocano a calcio non è raro sentirli apostrofare con insulti razziali dai genitori dei calciatori delle squadre avversarie. Ma di questo nessuno si occupa, neanche le associazioni che lavorano sulle discriminazioni”.
Prima tifosi e poi antirazzisti. Secondo Valeri il problema non è solo l’assenza di regole e di sanzioni disciplinari, ma soprattutto il vuoto culturale sul tema. “Nel nostro paese, più che in altri, esiste una doppia morale quando si parla di calcio: anche la persona più democratica e antirazzista pensa prima come un tifoso – sottolinea – Non c’è una reale percezione del problema: l’italiano medio la pensa così, e la cultura italiana sportiva non ne ha fatto una battaglia. In questo il caso di Balotelli è stato emblematico: negli altri paesi l’attenzione è maggiore, sono spesso gli stessi tifosi a cacciare chi insulta dallo stadio. Ma qui non passa il discorso che questi siano episodi gravi: non è un caso che in tutti gli spot contro il razzismo nel calcio non c’è un giocatore italiano che sia stato disposto a metterci la faccia”.
La serie A incapace di dare l’esempio, ripartire con progetti mirati nelle serie minori. Se i calciatori senior, dunque, sono dei cattivi maestri bisogna investire sulle giovani generazioni. Ma anche qui le resistenze nel mondo del calcio non sono poche. “La riduzione del razzismo nelle serie A e B, potrebbe far aumentare la consapevolezza sul problema, ma non ci sono buoni esempi, non ci sono calciatori che pensano di far diventare questa una battaglia vera. L’ assenza di pene giuste su questi temi fa sentire i ragazzi giustificati quando usano parole razziste verso i compagni. – aggiunge – Gli episodi razzismo nei tornei giovanili stanno aumentando anche perché oggi ci sono molti più ragazzi di seconda generazione, che giocano a calcio. Un fenomeno nuovo sono anche gli arbitri, figli di stranieri, che stanno iniziando a lavorare. E’ chiaro che questo passaggio non poteva avvenire senza traumi. Ma se i genitori che insultano dagli spalti sono forse ineducabili, un lavoro si può fare sui ragazzi. Un’iniziativa che abbiamo proposto è quella di spiegare ai giovani le regole della giustizia sportiva ma anche cosa vuol dire essere razzista. Il problema è che in altri paese l’antirazzismo è un tema bipartisan, da noi è imbrigliato in un discorso politico. E quindi si finisce col paragonare la svastica alla faccia di Che Guevara. Ognuno punta a difendere le sue posizioni senza cogliere gli aspetti critici. In tutto questo c’è una latitanza delle associazioni antidiscriminazioni, che non si occupano del problema nel calcio o lo hanno sottovalutato finora”. (ec)