In Arabia Saudita il nuovo anno è iniziato come quello appena terminato, se possibile addirittura peggio: dopo le 157 esecuzioni del 2015, questa mattina sono state eseguite altre 47 condanne a morte.
La notizia era nell’aria: il 31 dicembre 2015, come si era appreso da una circolare del ministero dell’Interno resa pubblica dagli attivisti sauditi per i diritti umani, le forze di sicurezza erano state messe in allerta circa possibili disordini, erano stati annullati permessi e ferie ed era stata sollecitata una speciale attenzione circa azioni sui social media che potessero richiamare le oltre 50 condanne a morte emesse alla fine di novembre.
Secondo le autorità di Riad, i 47 uomini messi a morte erano stati giudicati colpevoli di “terrorismo” e alcuni di essi avevano compiuto attentati per conto di al-Qaeda nello scorso decennio. Tuttavia, le procedure sommarie dei tribunali speciali antiterrorismo, la genericità della definizione di terrorismo contenuta nell’apposita legge del 2014 e le denunce sulle torture inflitte agli imputati sollevano molti dubbi sulla correttezza dei processi terminati con le condanne a morte.
L’esecuzione, delle 47, per cui le forze di sicurezza erano state messe in allerta è quella dello sceicco Nimr Baqir al-Nimr, influente leader della discriminata comunità sciita, arrestato l’8 luglio 2012 e condannato a morte il 15 ottobre 2014.
La sua fine può essere considerata un altro capitolo dello scontro tra le leadership sunnita e sciita in Medio Oriente. E infatti l’Iran ha subito mandato a dire che l’esecuzione dello sceicco al-Nimr costerà cara.
In attesa dell’esecuzione c’è anche uno dei nipoti dello sceicco, Ali Mohamed al-Nimr, per il quale è in corso un’imponente mobilitazione mondiale.
Alla vigilia dell’anniversario delle prime (e per fortuna uniche) 50 frustate al blogger Raif Badawi, dall’Arabia Saudita arriva oggi un ulteriore pessimo segnale. Tutti coloro che continuano a definire “moderato” questo paese, dovrebbero aggiornare il loro vocabolario.