Riceviamo e pubblichiamo questo pezzo da parte di un consigliere nazionale dell’Ordine dei giornalisti e invitiamo chiunque fosse interessato a scrivere sulla materia a partecipare al dibattito pubblicamente sulle nostre pagine inviandoci sue riflessioni sul tema. Dal canto nostro vorremmo precisare di essere stati chiamati a partecipare al processo di realizzazione della legge per l’assegnazione di fondi pubblici a sostegno dell’editoria e che nei prossimi giorni racconteremo tutto il processo, dal nostro punto di vista, sulla nostra bacheca online. Buona lettura.
Il presidente del consiglio si è presentato ai giornalisti italiani nella conferenza stampa di fine anno augurandosi la cancellazione dell’Ordine. Si è ripetuto: il suo orientamento lo aveva già manifestato un anno fa. Del resto il presidente del consiglio di fronte ad un proposito del genere troverebbe solidarietà tra molti lettori o ex lettori di giornali, tra molti politici e persino tra molti giornalisti.
Cancellare l’Ordine non sarebbe una bestemmia, purché si sappia che l’Ordine cancellato andrebbe sostituito con qualcosa d’altro, qualcosa d’altro magari sotto forma di “sindacato” come avviene in tanti paesi d’Europa (come nella vicina Svizzera, dove sindacati molto poco politici si occupano di deontologia, di scuole, di formazione, di assegnare tesserini di riconoscimento, più o meno come sta facendo il vituperato Ordine italiano).
Renzi ha pure ricordato però che è in discussione una proposta di legge a sostegno dell’editoria, che, come ben si sa, in alcune pochissime righe, prescrive la riduzione del numero dei consiglieri nazionali a diciotto (da centocinquanta circa), delegando al Governo la responsabilità di “razionalizzare la composizione e le attribuzioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti”: insomma prima si fissa il numero di diciotto consiglieri, quindi si stabilisce che cosa dovranno fare… peraltro entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Forse era il caso di procedere in senso opposto: definire compiti e attribuzioni, quindi dedurre il numero.
Ma è così e comunque meglio di niente: con il piglio decisionista tipico dei tempi renziani, una proposta di legge espressa dalla maggioranza impugna la questione dell’Ordine… finalmente, a oltre mezzo secolo dalla approvazione della legge istitutiva (1961).
Non dovrebbe essere troppo arduo procedere: c’è un lavoro alle spalle, proposte parlamentari e progetti varati dallo stesso consiglio nazionale, maggioranza o minoranza, proposte e progetti tutti sul tavolo, a disposizione del legislatore, tutti rapidamente utilizzabili per giungere alla sintesi di una autentica riforma…
Ovviamente ci sta di mezzo il mare dei tempi lunghi della politica e della volontà, che è difficile immaginare accesa, dal momento che dell’Ordine dei giornalisti poco importa all’elettorato di qualsiasi fronte, che l’Ordine dei giornalisti non sta neppure in cima ai pensieri di noi stessi giornalisti e del nostro sindacato. Oltretutto si sa che l’Ordine costa molto (motivo consueto di polemica), ma si sa anche che l’Ordine non vive certo sulle spalle della fiscalità generale: l’Ordine spende o sperpera (anche per il dovere di rispettare la legge) solo i soldi dei propri iscritti. Quindi tutto potrebbe andare avanti allo stesso modo di sempre, ma è evidente pure come non si possa andare avanti così per una questione morale, per una questione politica, se si vogliono esercitare davvero funzioni fondamentali a salvaguardia della bontà (della qualità e della pluralità) dell’informazione e quindi della stessa sua sopravvivenza nel sistema dei media, a salvaguardia – non ho paura della retorica – della democrazia e della cultura: dal rispetto della deontologia alla formazione, dall’accesso alla professione alla lotta al precariato …
Sono poi questi i punti (insieme con la drastica, obbligatoria, riduzione dei membri del consiglio nazionale) di una riforma, gli stessi punti che “Liberiamo l’informazione” indicò nel suo programma elettorale tre anni fa, a partire da una ridefinizione della figura del giornalista sulla base di un semplice principio, “giornalista è chi lo fa”, aggiornando progressivamente l’anacronistica distinzione (fissata dalla legge del 1961) tra professionisti e pubblicisti, specchio di una storia sempre più lontana. Mi pare che le linee guida di una riforma siano chiare (basterebbe riconsiderare i non troppi fogli che illustrano e organizzano le proposte discusse e votate in consiglio nazionale solo pochi mesi fa o negli ultimi anni) e posso immaginare che riscriverle in forma di coerente proposta di legge non dovrebbe essere difficile e neppure dovrebbe richiedere troppe ore.
Ma dubito che un iter legislativo si possa concludere in tempo utile, in tempo insomma perché le prossime elezioni (maggio 2016) possano avvenire secondo le indicazioni e con gli obiettivi fissati da una nuova legge. Comprensibile…
Ma il governo dovrebbe aver ben presente che i giornalisti non possono tornare alle urne nella situazione del passato, eleggendo un “mostro”, un consiglio nazionale di quasi centosessanta membri, in maggioranza pubblicisti… Un assurdo, uno spreco ulteriore e per legge, cioè nel pieno rispetto della legge, una macchina infernale ingovernabile e improduttiva. Non c’è che una via: la proroga dell’attuale consiglio, sei mesi un anno, il tempo che il governo riterrà necessario per giungere alla riforma. Se il governo decidesse così, darebbe anche il segnale di un interesse autentico per la questione, di un impegno autentico. Renzi si fregerebbe di un’altra riforma (“facile” e che peraltro non costerebbe nulla alla collettività). Credo intanto che la proroga sia una scelta inevitabile (e condivisa da molti, trasversalmente e non solo tra le fila di “Liberiamo l’informazione”).
di Oreste Pivetta
(Consigliere nazionale dell’ Ordine dei giornalisti)