La mancanza di norme a difesa della libertà di stampa e la compressione dei diritti di difesa degli imputati lo permettono nello Stato Vaticano
Gli avvocati Andrea Di Pietro e Valerio Vartolo coordinano lo Sportello Legale di Ossigeno, che offre assistenza gratuita ai giornalisti e blogger che non dispongono di tutela editoriale né di adeguate risorse per difendersi in sede processuale. Per informazioni Visita lo Sportello Legale di Ossigeno
Osservando dal territorio italiano le procedure giudiziarie applicate dallo Stato Vaticano nel processo Vatileaks bis e paragonando queste procedure a quelle di casa nostra, balzano agli occhi alcune grandi differenze che riguardano sia l’ambito riconosciuto dalla legge alla libertà di stampa, sia l’ampiezza del diritto di difesa, che nella Santa Sede appare notevolmente compresso.
Come è noto, i giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, che figurano fra i cinque imputati che compariranno nuovamente in udienza lunedì prossimo 7 dicembre 2015 davanti ai giudici del Vaticano, sono sotto processo per essere entrati in possesso di documenti riservati della Santa Sede e averli inseriti nei loro libri pubblicati in Italia. Secondo la magistratura Vaticana, essi, con questo operato hanno violato l’articolo 116 bis, inserito nel luglio 2013 nel codice penale vaticano fra i cosiddetti “Delitti contro la patria”. Questo articolo del codice stabilisce che debba essere punito “chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione”.
La specialità della legislazione vaticana è evidente. In altri paesi europei – Italia compresa – un’attività di inchiesta giornalistica come quella svolta dai giornalisti Nuzzi e Fittipaldi non sarebbe perseguibile come reato. Vediamo perché.
Una principio fondante del giornalismo di matrice occidentale e liberale impone al giornalista di operare nell’interesse pubblico e di pubblicare senza riserve tutto ciò di cui viene a conoscenza, se ha un carattere di attualità e un interesse pubblico. Il giornalista è tenuto a farlo tanto più se con ciò rivela segreti che il potere (intendiamo, anche uno solo dei tanti centri di potere) vorrebbe tenere nascosti ai cittadini.
Se il giornalismo occidentale rinunciasse a osservare questa semplice regola, la sua funzione di controllo per conto dell’opinione pubblica verrebbe meno . Questa funzione è considerata essenziale nelle democrazie moderne fin dai tempi della Rivoluzione francese, perché permette ai cittadini di partecipare alla vita pubblica e di esercitare i suoi diritti.
Proprio per preservare e garantire questa funzione, nelle nostre democrazie la legge non pone limiti definiti all’operato del giornalismo, tanto più a quello di cronaca e di inchiesta (al giornalismo investigativo, secondo la denominazione anglo-sassone). Anzi, in questi paesi, il giornalismo è tutelato da norme specifiche e in altri, come è il caso dell’Italia da norme generali quale l’art. 21 della Costituzione, che estende la difesa della libertà di espressione e di parola fino a coprire il concetto di libertà di stampa.
Gli ordinamenti democratici prevedono qualche limitazione alla libertà di stampa. Queste limitazioni sono ben poche, sono definite con ogni dettaglio, sono motivate ed esplicitamente elencate. Queste limitazioni non sono mai motivate da convenienza politica, ma giustificate da particolari esigenze di tutela di altri diritti, del principio di legalità, o dello stesso indagato-imputato: si pensi, ad esempio, al divieto di pubblicare atti coperti dal segreto istruttorio, presente nel nostro ordinamento.
Nei tribunali italiani la vicenda che vede protagonisti i due giornalisti sarebbe stata affrontata (e probabilmente archiviata prima ancora dell’inizio del processo) avendo due precise norme di riferimento: la prima è l’art 21 della nostra Costituzione, di cui abbiamo parlato; la seconda è l’art 51 del codice penale che, nella sua formulazione generale, comprende l’esercizio di un diritto, e dunque anche l’esercizio del diritto di cronaca, fra le cause che escludono l’antigiuridicità (“norme scriminanti”) di una eventuale condotta considerata delittuosa paragonabile a quella contestata a Nuzzi e Fittipaldi.
Ad esempio, l’art. 51 rende non punibile per diffamazione chi narra un fatto che danneggia la reputazione di un personaggio pubblico a condizione che il fatto sia vero, sia di interesse generale, interessi il pubblico e sia esposto con una certa continenza espressiva.
Facendo queste considerazioni, non può essere taciuto che la giurisprudenza comunitaria, che trae linfa dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, offre un’ambito operativo ancora più ampio al giornalismo di cronaca e fa ritenere legittimo l’operato in merito a non poche controversie giudicate negativamente dalla giustizia italiana. Ciò avviene perché la giurisprudenza comunitaria fa prevalere più nettamente il dovere di informare ed il diritto dei citatdini ad essere informati rispetto alla tutela della propria reputazione personale fatta da un soggetto che si rivolge ai giudici. Dunque, come è evidente, un’attività di inchiesta, come quella svolta dai giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, non potrebbe essere messa sotto inchiesta in altri paesi europei.
La differenza fondamentale è che nello Stato del Vaticano non esiste una Costituzione liberale né una norma specifica a tutela della libertà di stampa, nulla dunque che possa proteggere, e addirittura incentivare l’attività giornalistica.
L’altra peculiarità della vicenda Vatileaks riguarda l’esercizio del diritto di difesa.
Gli imputati, giornalisti compresi, non hanno potuto avvalersi dell’assistenza legale degli avvocati di loro fiducia che avrebbero incaricato, ad esempio, per un processo davanti alla magistratura italiana. Rispetto all’Italia, il Vaticano è uno Stato straniero e prevede che gli avvocati difensori siano già abilitati a farlo entro le sue Mura.
Questo status della Città del Vaticano comporta garanzie difensive, tempi e riti processuali specifici, profondamente diversi da quelli italiani ed in generale da quelli propri di altri stati di diritto.
Il sistema italiano, come quello di tutti i sistemi democratici che si fondano sullo Stato di Diritto, è radicato sul principio che l’indagato, prima, e l’imputato, poi, debbano godere della più assoluta tutela difensiva, affinché il processo sia equo e giusto. Il sistema processuale vigente nello Stato del Vaticano prevede garanzie a difesa all’indagato, ma con tempistiche e possibilità stesse di difesa profondamente diverse, neanche lontanamente paragonabili a quelle del nostro ordinamento.
Nei regimi democratici le garanzie della difesa devono essere sostanziali, non possono essere puramente nominali, e dunque formali, ma devono essere effettive, funzionali, cioè, all’accertamento della verità processuale e non funzionali a facilitare l’attività della pubblica accusa.