di Davide Galati
Nell’ambito della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, venerdì 4 dicembre verrà presentato a Roma il libro edito da Stampa Alternativa “Quando Google ha incontrato Wikileaks“ di Julian Assange. Ne abbiamo approfittato per rivolgere alcune domande al traduttore italiano del testo (con Stefano Salpietro) Bernardo Parrella, attivista e giornalista online residente da tempo negli USA. E naturalmente non potevamo non tener conto dei recenti attentati a Parigi che plasmeranno senz’altro le dinamiche del conflitto in corso tra potere e cittadini, tra sorveglianza e libertà.
Com’è evoluto negli USA il conflitto tra controllo e libertà online dopo gli attentati di Parigi?
In America, sui temi cruciali si tende ad assumere posizioni polarizzate: in questo caso molti politici stanno attaccando la crittografia (encryption) e spesso si sente affermare che i terroristi avrebbero usato messaggi Whatsapp e sms criptati, cosa che non è né provata né vera; si dice anche che con l’encryption si favoriscono queste comunicazioni all’oscuro, alle quali FBI e CIA non possono accedere. Di conseguenza sono forti le pressioni sia sulle aziende private che sul governo perché si elimini la possibilità che gli utenti possano usare programmi criptati.
Questo dibattito è demagogico perché, come spiegato in diversiarticoli molto interessanti, innanzitutto non ci sono prove che sia successo così, è probabile che i terroristi abbiano comunicato normalmente, e molti di loro vivevano insieme; inoltre la crittografia moderna esiste dai tempi dalla Seconda guerra mondiale, e non si può eliminare così facilmente.
La questione sembra più che altro un’alibi per creare psicosi di massa e disinformazione diffusa: la gente non si rende ben conto dei meccanismi sia tecnici che sociali, culturali del digitale e quindi si fa influenzare dai politici che sostengono queste idee.
In generale il dibattito rimane un po’ ristretto a quest’ambito, ma è seguito anche il tema dello stop all’ingresso dei rifugiati siriani; dalle ultime notizie pare che ora il 70/80% dei cittadini sia diventato contrario ad ammettere anche quei pochi siriani che si rifugiavano qui, dopo aver passato tre-quattro livelli di screening e controlli. La gente si sta orientando a chiudere sempre di più le frontiere, a non accogliere più i rifugiati che l’America aveva invece promesso di accogliere.
In un momento in cui si restringono gli spazi di libertà, vorrei al contrario chiederti di raccontarci il libro da te tradotto, e il collegato “The WikiLeaks Files: The World According to US Empire“, analisi uscita quest’anno che hai definito “la più completa” sul tema. Pensi che anche questo libro potrà un giorno essere tradotto in italiano?
In Italia l’interesse verso queste storie è un po’ generico, e c’è un approccio in parte scandalistico verso Julian Assange, anche per via del processo in corso in Svezia [per stupro, NdR]: non viene mai considerato né come uno hacker serio né come un giornalista, uno che produce informazione. Al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, nonostante ciò venga interpretato anche in un senso negativo. Qui Assange viene considerato una specie di giornalista investigativo, che fa anche delle cose assurde e strane per trovare informazione, però in questo senso c’è più rispetto, e anche in altri Paesi, ad esempio in Germania, dove Der Spiegel ha curato vari servizi e iniziative.
I suoi libri in Italia non vendono un granché, e non vengono considerati seriamente neanche dai librai; sui giornali non si sono fatte grandi inchieste, non si sono aperti grossi spazi come altrove all’estero. Questo vale anche con riferimento a “The Wikileaks Files“, che è una vastissima raccolta a cura dello stesso Assange in collaborazione con vari esperti locali di tutto il mondo: in pratica è un’enorme, definitiva collezione che consente di accedere a una grande mole di informazione specifica – come avviene peraltro anche nelle note del libro pubblicato da Stampa Alternativa, zeppe di riferimenti, rimandi ecc. -. Mette insieme in un’analisi dettagliata e comparata i cablogrammi che sono stati diffusi online, e li inserisce nel contesto storico in modo che se ne capisca l’importanza; i capitoli sono divisi nelle varie regioni del mondo dove sono presenti le ambasciate americane e permette di comparare i vari cables con ciò che ogni ambasciata pensava in realtà del Paese in cui stava e dei suoi governanti.
Tornando alla scena americana, a pochi giorni dallo Aaron Swartz Day [tenutosi il 20 novembre scorso in onore dell’attivista impegnato per la cultura libera e l’open access costretto al suicidio a ventisei anni], qual è la situazione, c’è stata qualche evoluzione positiva nel quadro normativo della libertà di accesso ad Internet?
No. Dopo il tentativo di Lawrence Lessig, che in settembre si era proposto come candidato alla Presidenza per i Democratici con l’obiettivo unico di realizzare una legge anti-corruzione che impedisse ai vari gruppi e ai super PAC di prendere soldi dai privati, è tutto fermo. La campagna è durata un paio di mesi dopodiché si è ritirato.
Anche con riferimento al tentativo di introdurre l’Aaron Swartz Act, una legge che regoli l’accesso a Internet su una base di maggiore buon senso, è rimasto tutto bloccato, non se ne parla assolutamente e il potere continua ad approfittare dell’obsoleto Computer Fraud and Abuse Act [CFAA, legge federale anti-hacking, NdR] introdotto nel 1986. Il quadro legislativo non è cambiato e sicuramente non cambierà, perché viene usato per incutere paura e ricattare mediante sentenze esemplari, soprattutto nei confronti della gente giovane che si muove nell’ambito dell’hacking e della libertà di informazione.
Si vedano i casi del giornalista investigativo e membro di Anonymous fino al 2011 Barrett Brown, accusato di minacce a un agente all’Fbi e altre imputazioni, recentemente condannato a 63 mesi nonostante il patteggiamento, in pratica solo per aver diffuso un link al materiale interno trafugato dal collettivo hacker con l’attacco ai danni dell’azienda d’intelligence Stratfor nel 2011; oppure quello di Jeremy Hammond, l’attivista da tempo membro dichiarato di Anonymous che aveva materialmente compiuto tale attacco (che poi si è rivelato una manovra curata da infiltrati dell’FBI nel collettivo proprio per incastrarne qualcuno e “dare l’esempio”), e per questo condannato nel novembre 2013 al massimo della pena prevista dal Computer Fraud and Abuse Act, 10 anni, pur a fronte di un’ampia mobilitazione per il suo rilascio (http://www.freejeremy.net/) da parte di giornalisti, docenti ed esperti informatici Usa.
Allargando un po’ lo sguardo, secondo te un cittadino cosa può fare per difendersi dalla sorveglianza online, può rendersi attivo nel conflitto tra libertà e controllo?
La cosa migliore da fare è adottare una serie di iniziative, un approccio diversificato sia a livello individuale che di gruppo. Individualmente bisogna come minimo imparare a usare PGP, a criptare le proprie mail, a muoversi su Tor ecc., anche se pure lì possono trovarsi infiltrati, non sono mai ambiti del tutto sicuri.
Al contempo va portato avanti l’attivismo il più possibile: da un lato attraverso iniziative online alla Anonymous come azioni di blocco o intrusione nei siti, con le dovute cautele e precauzioni – come stanno appunto facendo gli anons, a fini politici progressisti, da qualche tempo. Ma realizzando anche iniziative di strada, proteste, scrivendo ai propri rappresentanti. Va tenuto alto il livello di attenzione intervenendo nei diversi ambiti, sia proteggendosi individualmente con tutti gli strumenti che man mano arrivano, sia continuando ad attivarsi nel modo più ampio possibile e partecipando a più iniziative di questo tipo.
Cosa pensi della situazione italiana, alla luce del recente voto alla Camera dell’Internet Bill of Rights, approvato peraltro all’unanimità, anche se in termini di Net Neutrality il voto sembra andare in direzione contraria a quanto da noi espresso in sede europea? Sei riuscito a seguire la vicenda e a fartene un’opinione?
Trovo giusto che questa domanda venga posta a chi sta al di fuori dell’Italia: viste da qui tali situazioni appaiono un po’ inutili, ci sono problemi molto più urgenti: ad esempio, ripeto, intervenire per liberare la crittografia, fare informazione su Wikileaks o su Anonymous, affrontare efficacemente l’attivismo dell’ISIS. L’energia andrebbe impegnata altrove più che realizzare dei formali bill of rights che poi servono a poco o a nulla. Già in Brasile, dov’è stato approvato il Marco Civil, la situazione politica e sociale e l’approccio generale alla Rete è ben diverso.
A mio parere in Italia sarebbe più utile lavorare a livello di informazione, con lo sviluppo di siti che rilancino ed espandino i temi di cui stiamo parlando, magari sarebbe utile insegnare anche ai ragazzi come criptare le email o i messaggi whatsapp: occorre diffondere una cultura dell’autoliberazione contro la sorveglianza diffusa, dare empowerment ai singoli individui spingendoli a usare questi strumenti piuttosto che sprecare denaro in dibattiti, energie per un documento che, sì, è valido sulla carta ma è teorico ha poco impatto concreto. Mi chiedo anche: quanto c’è di strumentale in iniziative del genere? A chi fanno comodo in realtà? Non pagano per l’attivismo e per cambiare le cose in sé, sembrano più dei manifesti utilizzati a fini elettorali, senza che i politici, che capiscono poco della Rete, decidano di sporcarsi veramente le mani.
Dopo la pubblicazione del libro di Assange quali sono i tuoi prossimi progetti?
Al momento ho finito il lavoro di traduzione del libro dedicato ad Anonymous dall’antropologa e scrittrice Gabriella Coleman, che uscirà a gennaio per Stampa Alternativa; poi inizierò a lavorare sull’ultimo libro di Geert Lovink, come i precedenti incentrato sulla critica ai social media.