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“Un processo alla libertà di stampa”. Intervista a Emiliano Fittipaldi

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Con il libro inchiesta Avarizia ha portato a galla gli scandali finanziari della Santa Sede e oggi Emiliano Fittipaldi, giornalista de L’Espresso, finisce sotto processo per aver divulgato carte segrete e documenti che dovevano restare oscuri agli occhi dell’opinione pubblica. Come spiega lo stesso Fittipaldi ad Articolo21, in Vaticano non esiste una legge in materia di informazione perché non esiste la libertà di informazione. La stessa sorte di Fittipaldi è toccata a Gianluigi Nuzzi, che con il suo Via Crucis ha puntato i riflettori sui conti (che non tornano) del Vaticano. I due giornalisti saranno ospiti della serata “Quando l’informazione dà fastidio”, promossa dal comitato #nobavaglio, di cui Articolo21 fa parte, che si terrà il prossimo 15 dicembre alle 21, presso il locale Bassa Fermentazione in via Ostia, 27.

Quale è l’accusa che ti viene mossa?
L’accusa letterale è «rivelazione di notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato».

Essendo il Vaticano un Paese diverso dall’Italia, quali sono le conseguenze di quest’accusa? Nel nostro Paese sarebbe mai accaduto?
No, in Italia non sarebbe successo. O, meglio, anche noi abbiamo delle leggi sul segreto di Stato, solo che noi abbiamo l’articolo 21 della Costituzione che prevede che certe informazioni non possono essere perseguite, a meno che le informazioni divulgate non danneggino veramente aspetti fondamentali. Qui invece perseguono, con questa nuova legge che ha voluto Papa Francesco nel 2013, chiunque faccia il mestiere di giornalista dai quattro agli otto anni di carcere. Questo è il punto pazzesco: non essendoci alcun diritto di cronaca o libertà di espressione definita dalla legge, c’è il rischio molto alto che fare il proprio mestiere possa portarti in carcere.

Quindi non esiste un “articolo 21” per il Vaticano.
No, non esiste. Non esiste la libertà di stampa, non esiste nessun diritto di cronaca né libertà di espressione. Semplicemente non è inserito nel loro ordinamento. Perciò è così complicato difendersi formalmente da un’accusa di scoop, che poi è un’accusa di notizie. Perché non c’è null’altro, non è che io e Gianluigi Nuzzi abbiamo diffamato qualcuno.

Per questo si parla di un processo all’articolo 21?
Io parlo di un processo non a me, ma alla libertà di stampa. Non si può nemmeno pubblicare delle notizie di sicuro interesse pubblico, come sapere finalmente quanti soldi gestisce il Vaticano dopo che per per cinquant’anni si sono fatte ipotesi di ogni tipo, spesso anche sbagliate al rialzo o al ribasso, sapere che i cardinali vivono come faraoni (e lo dice lo stesso Papa), ma entrando nel merito e sapendo quanto spendono, le dimensioni dei loro appartamenti, come vengono spesi tutti i soldi che i fedeli donavano tutti gli anni al Papa – spesi, appunto, in modo completamente diverso rispetto a quello che lo stesso Vaticano racconta –: tutto questo non può non essere di interesse pubblico. Se tu lo scopri, pubblichi il documento, verifichi la notizia e hai il dovere di pubblicarlo. Altrimenti cambi mestiere. Il fatto che tutto questo possa essere considerato un reato è sorprendente.

Pubblicheresti di nuovo quei documenti rischiando ancora di finire sotto processo?
Assolutamente sì. Ma certo, stiamo scherzando?! Ci sono varie forme di giornalismo, non voglio fare distinzioni eccessive. Ci sono caporedattori straordinari, che portano avanti il loro mestiere attraverso la creatività e attraverso l’ideazione di inchieste che poi possono fare gli altri materialmente. La differenza fondamentale è fra chi vuole fare davvero il giornalista – che è quello che dovremmo fare tutti, ossia raccontare quello che il potere non vuole che venga raccontato all’opinione pubblica: i fatti spesso vengono nascosti dal potere, come ci ricordava Peppe D’Avanzo, che ho avuto il piacere di conoscere appena entrato a L’Espresso – e i giornalisti, invece, che più che cani della democrazia sono cani da salotto, e ce ne sono molti in questo Paese. Questi ultimi dietro la finzione del rispetto deontologico e della moderazione, in realtà, per motivi di interesse personali preferiscono non dare fastidio al potente di turno.

A proposito, rispetto a questo, quanto è difficile fare questo mestiere, in merito anche alla questione delle querele temerarie e delle minacce?
Mi è arrivata qualche giorno fa una querela di Mauro Masi della Consap da 90 milioni di euro, per dirne una. Sicuramente ho la fortuna di lavorare in un gruppo che mi copre le stampe e che mi ha sempre appoggiato. È una fortuna perché sono libero di scrivere a L’Espresso quello che voglio, d’accordo ovviamente col direttore. Mai nulla mi è stato censurato in questo giornale. È una fortuna perché in giro i colleghi, soprattutto quelli di testate più piccole o i colleghi che lavorano nella stampa locale subiscono pressioni gigantesche e spesso non hanno alle spalle dei gruppi che possono permettersi il rischio di querele temerarie. Questo finché la politica non cambierà le leggi sulle querele temerarie. Perché tu hai tutto il diritto di chiedermi un danno economico se ritieni di essere diffamato, ma deve essere in qualche modo legato alla realtà. Se tu mi chiedi 90 milioni per un pezzo di cui non smentisci nemmeno una riga, è chiaro che quella è una minaccia. A quel punto servirebbe una legge: si può fare quel tipo di querela, ma, se perdi, mi dai il 5% di quello che chiedi. Vedresti che le richieste così sarebbero molto più basse e accettabili. Questa è una legge fondamentale che dovrebbe essere fatta per difendere la libertà di stampa.

A proposito di questo e ricollegandoci alla tua vicenda, c’è qualcosa che chiederesti a Papa Francesco in materia di libertà d’informazione?
Io mi auguro che la situazione kafkiana e paradossale che sto vivendo possa in qualche modo essere di sprone alle autorità vaticane, nell’immediato futuro, affinché inseriscano nel loro ordinamento delle leggi più democratiche. Il Vaticano è l’unico Paese nell’occidente a non avere leggi che difendano la libertà di stampa e forse è arrivato il momento di fare una rivoluzione. Anche lì.


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