“Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna, perché Parigi è una Festa Nobile”: così scriveva Ernest Hemingway. Una vecchia edizione del suo romanzo autobiografico e di formazione è posto con cura fra le migliaia di mazzi di fiori, candele e lettere di ricordo, che si allungano interminabili sui marciapiedi tra Boulevard Voltaire e Boulevard Richard Le Noir, di fronte al teatro Bataclan e lungo l’itinerario della strage fondamentalista che ha mischiato il sangue dei 130 uccisi a quello delle 300 sopravvissuti, molti dei quali mutilati per sempre.
“Per Parigi non ci sarà mai fine. I ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri, ma Parigi valeva sempre la pena e qualsiasi dono tu le portassi ne ricevevi un altro in cambio”. Riflettiamo sulle parole di Hemingway, mentre la vita, faticosamente, qui riprende la sua marcia; le lacrime continuano a scorrere, ma sotterranee; i marciapiedi sono pieni della folla abituale, frettolosa e silenziosa; i tavolini dei caffè sono come sempre pieni, qui seduti si inganna il tempo libero, si parla di tutto e di nulla, si sorseggia lentamente un bicchiere, specchiandosi negli occhi degli altri. Che siano amici o sconosciuti è indifferente, perché qui vivere all’aperto e in comunità è un’abitudine interiorizzata.
All’entrata della libreria “Comme un Roman…”, storico punto di incontro di autori e di amanti delle buone letture, nel 3° Arrondissement, a pochi minuti a piedi dall’11° e dal 16°, teatri della mattanza, c’è un manifesto a caratteri cubitali con l’interrogativo: “L’arte ci salverà?”. E scorrendo il cartellone delle straordinarie mostre in corso, sembrerebbe proprio di sì. Qui, nei giorni scorsi, Carolyn Carlson ha presentato il suo ultimo libro: foto e pensieri di una stella della danza moderna, che ha ballato tanto per l’anima quanto per gli occhi. Accanto, il negozio di fiori ha disposto sul marciapiede cataste di alberi di Natale.
Le vetrine dei grandi magazzini e le strade più centrali, ma non solo, sono addobbate a festa. La “Ville lumiere” ha mantenuto la sua immagine. Nei fine settimana è tutto un via vai di persone con pacchetti fra le mani: si approfitta degli sconti e delle offerte straordinarie per i doni del prossimo 25 Dicembre. La gente fa la fila ordinata ai tradizionali negozi di formaggi, ma basta un rumore metallico improvviso proveniente dalla strada, per creare paura, per affacciarsi e poi cercare di capire se il pericolo è reale oppure no. La strage ha sospeso nell’aria particelle di paura, anche se la razionalità e l’abitudine alla libertà le tiene a freno. “Mais c’est dur…et alors bon courage!”, ti dicono qua, con quel distacco ironico, lieve, laico, confidenziale, che è tipico dello spirito parigino.
Verso sera si va alla boulangerie a comprare la baguette appena sfornata, poi ci si ferma per un po’ nei bar del quartiere, per scaldarsi con un bicchiere di vino rosso e aprirsi alle confidenze con gli amici. Si raccolgono e si condividono pezzi di vita quotidiana e poi si trattiene per sempre il racconto di chi conosceva le vittime della strage: un amico ci mostra la foto di quel giovane del quartiere, con lo sguardo limpido, che non c’è più. E l’incubo scorre sotterraneo nelle nostre vene.
Quando e dove ci sarà un altro attacco dei fondamentalisti al cuore della nostra civiltà? Per chi il Destino ha già fissato il suo macabro appuntamento?
Siamo ormai abituati a districarci fra le obiezioni cavillose di chi ci accusa di non versare lacrime sufficienti per le migliaia di vittime innocenti a tutte le latitudini, di chi ci accusa di “scegliere” i nostri lutti. Ma è una scelta che rivendichiamo, proprio perché siamo profondamente rispettosi delle libertà altrui. L’ambiguo “giustificazionismo” è solo mistificatorio, confonde e mischia, invece di arricchire il confronto.
Un’amica filosofa ultrasettantenne, ma giovanissima di mente e di cuore, ci ha ricordato che il Bataclan non è solo un teatro per fare musica, ma anche un centro culturale, che organizza dibattiti e conferenze, come quella da lei tenuta tempo fa sulla legislazione europea e le libertà delle donne. E allora ci sembra che i confini del mondo, che già la mia generazione vedeva solo tracciati sulla carta geografica, ora si potrebbero restringere alle nostre spalle. Se noi siamo stati la generazione che sognava “la fantasia al potere” e pensava di realizzare le Utopie; se noi abbiamo sepolto i nostri sogni, perso la nostra innocenza sotto le ceneri del “migliore dei mondi possibili”, tanto lontano dal nostro sentire, ora abbiamo il timore che i nostri figli, la “Generazione Bataclan”, restino impigliati nella trincea della vita, senza neppure il conforto delle illusioni.
Ai nostri ragazzi abbiamo insegnato fin dall’adolescenza a sentirsi di casa a Parigi come a Londra, a Berlino, a Barcellona, a Bruxelles e a Praga. Hanno vagato con la loro valigia piena di competenze e di speranze. La chiamano pomposamente “fuga dei cervelli”. Sono solo giovani donne e uomini che lottano ogni giorno per una vita più decente. Poi, magari, una serata di svago, un aperitivo sulla “terrazza” all’aperto, riscaldata dalle stufe della notte, ed ecco che si materializza l’incubo mortale.
Nella propaganda del Daech l’esibizione della violenza è il codice mediatico per imporsi ai nostri occhi increduli di occidentali. La guerra che ci sembra così assurda da apparirci una rappresentazione mediatica dell’orrore, a cui i nostri animi si ribellano istintivamente, ora sentiamo che minaccia i nostro valori profondi.
In quanto rappresentanti della laicità, valore che a tutti garantisce la pratica delle proprie idee e religioni, sono stati uccisi lo scorso 7 Gennaio i redattori di Charlie Hebdo. Una perdita artistica e intellettuale che ha segnato il nostro destino, di noi che sappiamo quando è il momento di piangere o ridere, includere e comprendere, non prendersi troppo sul serio e nello stesso tempo cercare lo spessore della realtà, oltre le cose apparenti.
Luz, uno dei pochi disegnatori sopravvissuti per caso al massacro di Charlie, e che ora vive sotto scorta in un rifugio segreto, lontano da amici e da Parigi, è tornato sulle pagine del settimanale allegato a Le Monde, per raccontare con la sua punta di china dissacrante e con tratti veloci e compulsivi l’orrenda strage al Bataclan. “Quelli che sono morti erano una parte di me stesso”. E ancora: “Amo le persone cui piace la musica, lo scambio di energia tra i musicisti sul palco e gli spettatori lì sotto”. Lui che per anni ha “calcato i palcoscenici e i backstage” dei concerti e li ha tratteggiati con l’ironia dei suoi disegni, oggi è lontano da tutto e tutti, può collegarsi solo con il telefono e internet al mondo: “Vorrei tanto poter ridisegnare le persone che ballano sulle note della musica dal vivo. Ma con cinque guardie del corpo intorno a me, c’è il rischio che non sarà facile”. Nelle ore seguenti la strage ha cercato affannosamente di contattare gli amici che forse erano andati al Bataclan, per scoprire se fossero scampati o meno. E così ha riportato gli incubi di quella sconvolgente notte in 5 tavole, che terminano con un’amara affermazione: “Dio non esiste. Non l’ho mai visto nei backstage dei concerti”.
Sere fa, in un piccolo circolo culturale-caffetteria, dietro al popolare Marchè des Enfants Rouges, era stato invitato un musicista “di strada” con la sua fisarmonica, per “alleviare la tensione” e volare per una sera oltre la nebbia del dolore. Le parole di Jacques Brel, raccolte in fotocopie distribuite ai presenti, risuonavano nelle sue canzoni: storie che raccontano poeticamente la miseria del mondo e i desideri sospesi, “storie di marinai e dei loro sogni d’ossessione, che muoiono pieni di birra e di drammi, che bevono per le signore che gli regalano i loro bei corpi, che donano le loro virtù per una moneta d’oro”. Alla forza esaltante di “Alle porte di Amsterdam” si aggiungeva la malinconia palpitante de “l’Inno all’amore” di Edith Piaf: “il cielo blu su di noi può crollare, la terra può sprofondare. M’importa poco se mi ami, me ne frego del mondo intero, purchè l’amore inondi le mie mattine”. E una commovente “Ne me quitte pas” collettiva si diffondeva nella fredda serata tra le viuzze del Marais, come un canto di Resistenza contro la moderna barbarie.
Siamo tornati più volte tra i marciapiedi del pellegrinaggio, per donare un fiore e sussurrare preghiere a modo nostro. Una carrellata di visi, di storie, di progetti spezzati, di coppie distrutte, di genitori che restano, di bambini che hanno perso per sempre le carezze più care. Mentre Le Monde, come omaggio alle vittime, continua tutti i giorni a pubblicare le loro biografie, la gente comune continua a lasciare un ricordo su fogli vergati a mano: testi, poesie e disegni colorati. Tanti i messaggi per Lola, piccola donna di 17 anni, che ha vissuto l’inferno, prima che le frantumassero il cuore. C’è chi cita Victor Hugo: “Ci sono coloro che si fissano a vedere solo il buio. Io preferisco contemplare le stelle. Ciascuno ha la sua maniera di guardare alla notte”. C’è chi cita le riflessioni di Voltaire su “fanatismo e integralismo, minacce contro l’umanità e frutto della superstizione”. Chi si domanda quanto profonde siano le radici del male, nascoste nelle tenebre dell’animo e quanto l’odio trovi concime nell’ignoranza. Chi ha bisogno della leggerezza de “Il Piccolo Principe” per trovare conforto: “Non chiedo miracoli né visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano. Per ogni fine, c’è poi un nuovo inizio”. Non manca chi sfoga la propria collera e accusa la politica, le sue incapacità e l’archiviazione frettolosa delle stragi a Charlie Hebdo e all’Hypercasher. Chi si domanda, infine, se “l’odierna banalità del male dei distributori di morte” è l’effetto di una causa o dettata dal solo “gusto di uccidere come in un videogioco”.
La luce del giorno sta lasciando il passo alle ombre della sera. I lumini accesi guidano i nostri passi verso il bar-brasserie La Bonne Bière, che ha vissuto l’orrore della devastazione e della mattanza ed ha riaperto coraggiosamente da poco. Parigi, come sempre, sa spalancare le sue porte e riprendere il corso della vita, guardare avanti senza cancellare la memoria del suo tragico passato.