Fatima è stata vittima di una violenza di gruppo a Riad. L’hanno stuprata in sette, più volte. Denunciata per aver violato le leggi saudite sulla segregazione dei sessi, è stata condannata a duecento frustate e sei mesi di carcere. La stessa pena comminata ai suoi aggressori. Succedeva otto mesi fa in Arabia Saudita, dove il tribunale che giudicava la giovane imputata ha emesso l’assurda quanto ingiusta sentenza.
Poco più che maggiorenne all’epoca dello stupro, la donna venne sorpresa da due uomini mentre era in macchina con un amico, sequestrata, portata in un luogo appartato della capitale e brutalmente violentata.
Fatima, musulmana sciita, era stata inizialmente condannata a novanta frustate ma dopo aver presentato un ricorso alla Corte Generale si è vista raddoppiare la pena. E non è tutto.
Altro paradosso; il suo avvocato, Abdul Rahman Al-Lahem, che aveva parlato del caso con i media, ha subito un’indagine per “comportamento in violazione alla legge”.
I giudici, oltre ad averlo diffidato dal continuare a difendere l’imputata, gli hanno revocato l’abilitazione professionale e lo hanno convocato per un’udienza disciplinare.
Il ministero della Giustizia, nonostante le critiche della comunità internazionale, ha difeso la decisione dei tribunale, affermando che la donna era colpevole di trovarsi sola in un luogo pubblico senza un membro maschio della famiglia. E dunque la sentenza era giusta.
Ancora più terribile la storia di un’altra giovane, accusata di adulterio. Lei è stata condannata alla lapidazione mentre l’amante a 100 frustate. Vittima questa volta della legge dei due pesi e delle due misure in Arabia Saudita, una domestica dello Sri Lanka assunta presso una famiglia di Riad.
La donna, sposata, 45 anni, è stata arrestata lo scorso agosto dopo aver confessato la relazione con un suo connazionale che, essendo single, è stato condannato a una pena minore.
I suoi difensori hanno presentato appello contro la sentenza, sostenuti dalla diplomazia srilankese che ha avviato un negoziato sul caso con i sauditi.
Ma in un paese in cui vige e viene massicciamente applicata la Sharia, la legge islamica, che prevede la pena di morte per diversi reati, tra cui l’adulterio, le speranze di un ribaltamento della sentenza appaiono pressoché nulle.
E ancora. Pochi giorni fa Riad ha annunciato la decisione di mandare al patibolo 55 persone condannate a morte per ‘reati contro lo Stato’. Neanche le minacce della cellula yemenita di al-Qaeda operante nel Paese, che ha giurato di ‘versare altrettanto sangue’ prima dell’esecuzione dei prigionieri condannati, ovvero soldati di al-Saud, sembrano scoraggiare tale intenzione.
Amnesty International stima che quest’anno in Arabia Saudita siano state eseguite almeno 151 condanne a morte.
Molti dei giustiziati erano stranieri condannati per crimini di droga. L’ultima esecuzione di massa risale al 1979, anche in questo caso per reati contro la sicurezza dello Stato, avvenuta pubblicamente nella Grande Moschea della Mecca.
Poche settimane fa l’assegnazione del prestigioso premio Sakharov per i diritti umani al blogger saudita Raif Badawi, condannato a mille frustate e a dieci anni di carcere per oltraggio all’Islam, aveva lanciato un messaggio forte al regime saudita che ci auguravamo tenesse in conto. Ma così non è stato.
Basti pensare che nei giorni successivi all’annuncio del riconoscimento del premio, la Corte Suprema dell’Arabia Saudita aveva confermato la condanna a morte di Nimr Baqir al Nimr, figura di spicco del movimento di protesta contro il governo e zio di Ali, ventenne
anch’egli destinato alla stessa sorte e per il quale si è animata una mobilitazione internazionale promossa da Amnesty International.
Ali Mohammed al Nimr aveva 17 anni quando nel febbraio 2012 venne arrestato per aver preso parte a un corteo nella provincia di Qatif.
Due anni dopo, il 27 maggio del 2015, è stato condannato a morte per decapitazione, per poi essere crocifisso ed esposto fino a quando il suo corpo non sarà putrefatto.
Secondo Amnesty la sentenza non sarebbe stata così dura se Ali non fosse stato nipote di uno dei più conosciuti e determinati oppositori sciiti al regime saudita.
Dopo la sentenza di Appello per Baqir al Nimr, confermata dall’Alta Corte suprema, il destino del leader dell’opposizione è passato nelle mani del re Salman a cui spetta, come per Alì, la convalida della condanna oppure la concessione della grazia.
Ma anche in questo caso, le speranze di un atto di clemenza sono minime.
Oggi più che mai vale la pena ricordare questo e i tanti altri casi di processi e giudizi sommari e sentenze disumane avvalorate, se non volute, dal regime di Riad per sollecitare, ancora una volta, una reazione da parte dei governi occidentali che mantengono rapporti commerciali, economici e diplomatici con i sauditi affinché, a fronte di business e cooperazione internazionale, ottengano maggiori garanzie del rispetto dei diritti umani. Concetto per loro alquanto astratto, a quanto pare.